[p. 39] Influsso della cancelleria papale sulla cancelleria arcivescovile genovese: prime indagini
Credo di dovermi scusare, preliminarmente, se il titolo di questa comunicazione contiene due equivoci: il primo riguarda lo stesso termine di cancelleria arcivescovile, difficilmente accertabile in ambito genovese, per cui dovrò più correttamente limitarmi ad indagare le eventuali influenze del documento pontificio su quello vescovile; il secondo deriva dall’accenno alla prime indagini che purtroppo potrebbero essere anche le ultime, almeno stando all’esiguità e alla frammentarietà della documentazione rintracciata1 e ai risultati conseguiti.
Cercherò quindi di evidenziare gli scarsi elementi di dipendenza dal documento pontificio, anche attraverso una rapida scorsa ai pochi vescovili [p. 40] dei secoli X e XI, nell’intento di coglierne, se possibile, le linee evolutive prima del secolo XII.
Per questo periodo disponiamo di 12 documenti, solo 4 dei quali in originale, come di seguito indicato: li numeriamo per favorirne la citazione:
- 1) 952 – Il vescovo Teodolfo reintegra la chiesa di San Siro nel possesso di una vigna: Le carte del monastero di San Siro cit. (sopra, nota 1), n. 1; originale e copia semplice del sec. XII.
- 2) 980 – Il vescovo Teodolfo concede ai canonici della Cattedrale tre quarti dei redditi dei territori posti tra Taggia e Sanremo: D. Puncuh, Liber cit. (sopra, nota 1), n. 8; copia semplice in registro del sec. XIII. Altra copia semplice, incompleta, del secolo XIII in Archivio di Stato di Torino, Genova, Vescovado, 13/33.
- 3) 987, giugno – Il vescovo Giovanni conferma al monastero di Santo Stefano una precedente donazione di Serra badessa: Cartario cit. (sopra, nota 1), n. XIII; copia del sec. XIX da copia semplice del sec. precedente.
- 4) <987–1019>, maggio – Il vescovo Giovanni introduce i
benedettini di Santo Stefano nella chiesa di San Nazaro in Albaro:
Archivio di Stato di Genova, Monastero di Santo Stefano, mazzo I/72;
originale. L.T. Belgrano, Cartario cit. (sopra, nota 1), n. XIV,
utilizza una copia del sec. XIX, derivata da copia semplice del
secolo precedente.
Per il termine post quem occorre fare riferimento alla presenza del canonico redattore Bruningo, ancora presente nei nn. 2 e 3, sostituito qui dal canonico Gotefredo; per quello ante quem ci riferiamo alla fine dell’episcopato del vescovo Giovanni.
- 5) 1007, febbraio – Il vescovo Giovanni costituisce in abbazia benedettina la chiesa di San Siro: Le carte del monastero di San Siro cit. (sopra, nota 1), n. 15; copia autentica del 1332.
- 6) 1008 – Il vescovo Giovanni costituisce in abbazia la chiesa dei SS. Vittore e Sabina: ibidem, n. 16; copia semplice del sec. XII.
- 7) 1019 – Il vescovo Landolfo concede al monastero di San Siro la chiesa di San Marcellino: ibidem, n. 27; originale.
- 8) 1025, aprile – Il vescovo Landolfo costituisce in abbazia la chiesa di San Siro di Struppa: ibidem, n. 30; originale.
- 9) 1036, novembre 30 – Il vescovo Corrado concede al monastero di San Siro la chiesa dei SS. Vittore e Sabina: ibidem, n. 35; copia semplice del sec. XVII.
- 10) 1037 – Il vescovo Corrado conferma al monastero di San Siro la donazione della chiesa di San Marcellino (v. sopra, n. 7): ibidem, n. 37; copia semplice del sec. XVIII, da copia autentica in registro del 1205, sul quale v. M. Calleri, Su alcuni „libri iurium“ deperditi del Monastero di San Siro di [p. 41] Genova, in „Atti della Società Ligure di Storia Patria“, n.s., XXXIV (1994), pp. 166–172.
- 11) 1052, luglio, die dominico – Il vescovo Oberto concede al monastero di San Siro il diritto alla riscossione di alcune decime: ibidem, n. 45; copia autentica proveniente dal frammento di un registro del 1205, sul quale v. M. Calleri, Su alcuni „libri iurium“ cit. (v. nota precedente), pp. 166–172.
- 12) 1087, dicembre – Il vescovo Corrado concede ai canonici della Cattedrale la chiesa di San Genesio: D. Puncuh, Liber cit. (sopra, nota 1), n. 6; copia semplice in registro del sec. XIII.
Ne escludiamo, ovviamente, tutti i documenti di natura più strettamente privata, quali, ad esempio, le permute,2 per la redazione dei quali il ricorso al notariato locale è denunciato, oltreché dal formulario, anche dalla scorrettezza del dettato e dalla persistenza dell’uso della scrittura corsiva nuova, mentre, al contrario, i diplomi vescovili, generalmente corretti, rivelano le mani di ecclesiastici, meglio addestrati all’uso della minuscola che, in qualche caso, raggiunge risultati di grande armonia e perfezione.3
Per quanto riguarda gli aspetti estrinseci, osserviamo, almeno nei quattro originali pervenutici, una grande incertezza nel ricorso ad usi più propriamente cancellereschi, in genere limitati ai caratteri allungati della prima riga, talvolta riscontrabili anche in copie più o meno imitative,4 nel ripiegamento verso destra delle aste ascendenti, verso sinistra di quelle discendenti,5 negli intrecci sull’asta delle legature a ponte ct et st, in alcune g con la coda tracciata in modo artificioso.6
Analoga incertezza si riscontra negli aspetti intrinseci, sui quali possiamo comunque procedere con maggiore sicurezza. Già dal protocollo intravediamo un alternarsi di formule. È sempre presente l’invocazione, talvolta [p. 42] nella sua duplicità, simbolica, rappresentata in due casi dal labarum (al quale corrisponde, in uno dei due, anche una particolare elaborazione grafica del nome del vescovo),7 e verbale,8 mentre nell’intitulatio si alternano formule diverse, anche all’interno dello stesso pontificato: sono presenti ora quella di devozione,9 ora quella di umiltà,10 ora entrambe,11 per giungere, in un documento del 1087, a ripetere quella del documento imperiale, divina favente clementia (e non ce ne stupiamo, trattandosi del vescovo Corrado, scismatico, di parte imperiale12); né manca qualche servus servorum Dei,13 di sicura imitazione papale, anche se il caso non è certo infrequente in ambito vescovile.14
Quanto all’inscriptio, che in due soli casi indica il nome dei destinatari,15 essa è generalmente riferibile ai fedeli della diocesi genovese, omnibus Sancte Dei ecclesie fidelibus,16 cui segue talvolta clericis et laicis17 o presentibus scilicet et futuris18 implicante, almeno in sei documenti, la successiva notificatio (notum facimus, notum esse o fore cupimus o volumus) che attraverso l’avverbio qualiter introduce la successiva narratio19; un solo caso di maggiore elaborazione (ad vos clericos et laicos presentes et futuros noster sermo dirigitur a quibus Ianuensi episcopo subditis obeditur)20 è seguito dall’arenga che in quattro occasioni precede la notifica21; manca sempre la salutatio.
L’esame delle arenghe, presenti in 7 documenti,22 potrebbe farci fare qualche passo avanti, – anche se esse si riducono a 5 per la ripetizione, alla lettera, pur a distanza di tempo, ma per documenti omogenei, di due di [p. 43] esse23 –, se potessimo disporre della computerizzazione delle arenghe pontificie; certo si colgono sempre una struttura, un linguaggio ed una terminologia generalmente riconducibili al dettato della curia romana.24 Su questo aspetto torneremo in seguito. Su narratio e dispositio, frequentemente intrecciate tra loro, nulla di particolare da osservare, se non che non sempre esse sono logicamente e consequenzialmente collegate all’arenga.25
Ove presente, la sanctio appare per lo più modellata sul formulario del coevo documento privato;26 in un solo caso, e si tratta sempre della donazione, già ricordata, del vescovo Corrado, essa arieggia quella imperiale;27 in altri quattro, ma in due28 i guasti prodotti dal tempo impediscono la lettura [p. 44] completa, si tratta sempre di minacce di tipo spirituale, espresse in forme cupe e terribili che richiamano il classico repertorio modellato sul Liber Diurnus;29 in due soli documenti, ripresi comunque l’uno dall’altro, si accenna a modesti premi per gli osservanti: secure et quiete vivant.30
La formula di corroborazione, presente in dieci casi,31 – più spesso accompagnata dalla iussio indirizzata ad un canonico,32 ad un chierico,33 in due soli casi, ed è la prima volta, a un cancelliere34 –, riecheggiante per lo più gli stessi schemi arcaici proprii di qualche documento privato genovese coevo, annuncia ora la sola firma del vescovo, ora, oltre alla sua, quelle dei canonici.35 Più elaborata la formula del già ricordato documento del 1052 che recita: Ut vero donationis nostrae chartula non fluctuare sed immobiliter in uno eodemque loco consistere videatur, veluti quedam tenacissima anchora, manus nostrae subscriptione firmatur;36 mentre in altro caso, e siamo di nuovo in piena commistione tra pubblico e privato, alla roboratio che prevede il solo intervento del vescovo, seguono, dopo la sua firma, completio notarile e nomi dei testimoni.37
In soli sette documenti è presente l’apprecatio, espressa di norma col consueto feliciter, apposta dopo la data,38 secondo l’uso del documento privato. Nella data cronica, sempre introdotta dall’Actum, coerentemente, se si eccettua la pressoché totale assenza di quella topica,39 con gli usi notarili del tempo, sono espressi, ma non costantemente, oltre al millesimo e [p. 45] al mese (il giorno, secondo il calendario romano, compare una sola volta40), gli anni di regno41 e l’indizione, più raramente gli anni di presulato.42
Alla firma del vescovo43 si accompagnano talvolta quelle degli appartenenti al Capitolo della Cattedrale, non sempre disposte in colonna ed in ordine gerarchico;44 mentre nel documento del 1052, già richiamato, parrebbe, almeno stando alla copia, che la partecipazione dei canonici, indicati gerarchicamente secondo il loro „status“ clericale, sia ridotto al semplice intervento confirmatorio.45
Il quadro che ne emerge è decisamente sconfortante: alla scarsa documentazione pervenutaci, specchio della marginalità o, meglio, della perifericità della diocesi di Genova rispetto alle vicende italiane,46 fanno riscontro elementi discordanti che solo in pochi casi possono ricollegarsi, in forme del tutto sporadiche, ai moduli consueti della cancelleria pontificia. Non emergono alcuna evoluzione né un qualche disegno inteso a strutturare una cancelleria vescovile. Al massimo si potrà parlare dell’intervento di singoli presuli, più o meno sensibili ai più evidenti usi cancellereschi della curia romana. L’oscillazione tra le forme del documento pubblico e quelle del privato ed il ricorso a modelli già impiegati, alla ripetizione cioè, quasi letterale, del dettato di alcuni documenti, sono specchio dello scarsa consapevolezza del significato delle forme cancelleresche e di una certa rozzezza o primitività del documento vescovile genovese, destinate a ripetersi, per non parlare di arretramento o di ricaduta, ancora all’inizio del secolo XII, se il vescovo Arialdo, nel 1116, fa strutturare secondo il consueto formulario delle donazioni pro anima una concessione in favore dei canonici della Cattedrale, la cui redazione avrebbe dovuto comportare la forma più solenne del privilegio.47
[p. 46] Per il secolo XII possediamo dieci documenti, tutti pervenutici in copia semplice in registri dei secoli XII–XIII, qui indicati e numerati di seguito ai precedenti:
- 13) 1132, dicembre 7 – Il vescovo Siro concede ai canonici della Cattedrale molte decime della città: D. Puncuh, Liber cit. (sopra, nota 1), n. 11.
- 14) 1139 – L’arcivescovo Siro dona al monastero di San Mauro di Torino la cappella di Santo Stefano in val Polcevera: Il registro cit. (sopra, nota 1), p. 29.
- 15) 1145, novembre 22 – L’arcivescovo Siro concede ai canonici della Cattedrale le decime dovutegli da alcuni cittadini: D. Puncuh, Liber cit. (sopra, nota 1), n. 13.
- 16) 1158, marzo 18 – L’arcivescovo Siro concede ai canonici della Cattedrale tutte le decime dovutegli all’interno della città: ibidem, n. 14.
- 17) 1163, settembre 21 – L’arcivescovo Siro impartisce alcune disposizioni relative alla riscossione delle decime: ibidem, n. 15.
- 18) <1133–1163> – L’arcivescovo Siro concede ai canonici della
Cattedrale i proventi delle oblazioni percepite in quattro festività
della Madonna: ibidem, n. 16.
Per la datazione facciamo riferimento agli anni di presulato di Siro, nominato arcivescovo nel 1133.
- 19) 1178, giugno – L’arcivescovo Ugo conferma uno statuto del Capitolo della Cattedrale relativo al numero dei canonici: ibidem, n. 17.
- 20) 1182, ottobre 5 – L’arcivescovo Ugo cede ai canonici della Cattedrale i diritti sulla chiesa di San Salvatore di Sarzano: ibidem, n. 18.
- 21) 1185, aprile 24 – L’arcivescovo Ugo concede ai canonici della Cattedrale alcuni privilegi e diritti di carattere liturgico e l’amministrazione della chiesa di San Marco al Molo: ibidem, n. 19.
- 22) <1188–1203> – L’arcivescovo <Bonifacio> scomunica
coloro che usurpano i diritti ecclesiastici sulle decime, che non
pagano i canoni convenuti o che detengono documenti che provano
l’esistenza degli stessi diritti e in genere tutti coloro che
useranno violenza nei confronti della Chiesa: ibidem, n. 20.
Per il nome dell’arcivescovo ci basiamo sui riferimenti ai suoi immediati predecessori Siro e Ugo; per la datazione, sugli anni di presulato dello stesso.
Con il pontificato del vescovo (arcivescovo dal 1133) Siro si avvertono alcuni significativi elementi di maggiore aderenza al formulario papale. Pur tramandatici esclusivamente in copia, i primi quattro documenti presentano tutti la prima riga in caratteri allungati, che comprendono, dopo la consueta duplice invocazione, simbolica, rappresentata da un segno di croce, e [p. 47] verbale (In nomine sancte et individue Trinitatis amen) l’intitulatio, talvolta accompagnata dalle consuete formule di devozione e di umiltà che abbiamo già rilevato in precedenza,48 in qualche caso col nome del presule monogrammato,49 seguita, in due, dall’inscriptio, con precisa indicazione dei destinatari, e soprattutto – è una novità assoluta – dalla formula in perpetuum, abbreviata secondo l’uso della cancelleria romana.50
Anche le arenghe sembrano acquistare un maggior respiro,51 quando addirittura non introducono brani ripresi alla lettera da un privilegio di Callisto II, del 1121, relativo alla consacrazione dei vescovi della Corsica,52 e sono meglio collegate alla narrazione, attraverso l’avverbio unde,53 quando si fa riferimento alla petitio, mentre il dispositivo che segue, sia o meno [p. 48] preceduto dal richiamo alla petizione, è generalmente introdotto dal consueto quocirca o ideoque.54
In un solo caso è presente la sanctio accompagnata da benefici spirituali;55 in due56 la minatio di carattere spirituale, comunque alleviata dalla possibilità di riscatto; in altri due la formula corroboratoria introduce per la prima volta la menzione del sigillo;57 in uno solo è presente l’apprecatio, ridotta al semplice Amen.58
Quanto all’escatocollo, ben poco da segnalare a proposito della datazione, che, preceduta in due casi da Facta est hec donacio et concessio atque affirmatio,59 in uno dalla data topica introdotta dall’Actum,60 ed espressa sempre con millesimo, giorno (in tre documenti secondo il calendario romano), mese e indizione,61 abbandona definitivamente gli anni di regno o di impero (ma questo è ormai avvenuto anche nel coevo documento privato) e di episcopato. Più interessante osservare che, forse in accordo ai privilegi semplici dell’età innocenziana, gli atti più completi sono convalidati dalla sola sottoscrizione dell’arcivescovo,62 accompagnata in uno da quelle di due vescovi suffraganei,63 in un altro dalle sottoscrizioni di arcidiacono e preposito della Cattedrale,64 in due da quella del notaio, che agisce comunque [p. 49] per preceptum o iussu dello stesso presule;65 a questo proposito c’è da osservare ancora come la prima donazione, redatta ad opera di Bonusinfans notarius et Ianuensis curie cancellarius, viene riconfermata solennemente, pochi giorni dopo, nella cattedrale di San Lorenzo, alla presenza dei canonici, dei consoli e di numerosi boni homines, ratificata, precepto donni supramemorati episcopi, dagli stessi consoli, redatta dal medesimo notaio, questa volta dietro mandato consolare, e sottoscritta, trattandosi di un lodo, da tre pubblici testimoni.66
Le non molte, ma significative, novità emerse a proposito dei documenti di Siro, mi obbligano ad aprire una parentesi su alcune ombre che avvolgono questo personaggio, del quale, prima della sua elevazione alla cattedra genovese, nulla sappiamo. L’annalista Caffaro ci informa solo che nel 1130, alla presenza del papa Innocenzo II, in fuga verso la Francia, Siro venne eletto vescovo e successivamente consacrato a St. Gilles dallo stesso pontefice.67 Per due anni se ne perdono le tracce. Nel suo primo atto conosciuto come vescovo di Genova, del dicembre 1132, alla consueta intitulatio egli fa seguire Sancte Romane Ecclesie cardinalis, titolo ripreso dalla sottoscrizione notarile;68 come tale è ricordato anche in una lapide, di epoca imprecisata perché tramandataci da tarde raccolte erudite, che riferisce come lo stesso primus archiepiscopus Ianuensis ac S.R.E. cardinalis, templum hoc (la chiesa del monastero di S. Benigno) consecravit octavo idus martii MCXXXII (1133 perché stile fiorentino dell’incarnazione),69 e da Iacopo da Varagine, che però potrebbe essere stato influenzato dalla conoscenza [p. 50] del documento del 1132.70 Aggiungiamo ancora che egli sottoscrive, ma solo come arcivescovo di Genova, un privilegio di Eugenio III (Viterbo, 18 agosto 1145) in favore del monastero genovese di Santo Stefano.71 Questi i pochi dati in nostro possesso.
Da tempo però, in ambienti genovesi, anche attraverso frequenti scambi di opinione con la collega Valeria Polonio, acuta studiosa di storia della Chiesa genovese, stiamo riflettendo su questo personaggio, domandandoci se egli non avesse già fatto parte dell’ambiente di Innocenzo II, col quale sarebbe giunto a Genova, dove la sede vescovile era vacante da circa un anno, per esservi eletto successore del vescovo Sigifredo, probabilmente dietro suggerimento dello stesso pontefice e negli ultimi giorni della sua permanenza genovese; si spiegherebbe così anche la sua consacrazione in terra di Francia, dove egli sarebbe rimasto accanto al papa, per tornare con lui in Italia, e quindi a Genova, due anni dopo. Quanto al titolo di cardinale, presente nell’unico documento anteriore alla promozione a sede metropolitica di Genova (1133),72 potrebbe esso fondarsi sulla gratitudine dello stesso pontefice nei confronti di un personaggio che avrebbe giocato un ruolo di primaria importanza nella sua fuga da Roma? Non sembra troppo azzardato ipotizzare che Innocenzo II abbia avuto al suo fianco influenti consiglieri, tra i quali forse lo stesso Siro, – sulla cui appartenenza alla nobile famiglia genovese dei Porcelli permangono molti dubbi73 –, e che la [p. 51] fuga non sia avvenuta senza previi accordi con ambienti genovesi. Non a caso il papa fuggiasco segue il medesimo itinerario che nel 1118 aveva portato in Francia Gelasio II, del quale era stato accompagnatore; lo stesso Innocenzo II negli anni 1120 e 1123, in qualità di cardinale, potrebbe essere entrato in contatto con ambienti genovesi ed aver preso parte alle trattative condotte da Caffaro, ambasciatore genovese, nella curia romana per la questione della consacrazione dei vescovi della Corsica, alla cui soluzione avrebbe contribuito se proprio a lui toccò, nel 1123, in sede conciliare, leggere la sentenza papale che chiudeva la vertenza.74
Queste ipotesi, perché tali esse sono, se verificate, potrebbero contribuire a diradare parzialmente le non poche zone d’ombra che avvolgono il percorso umano di Siro: la sua improvvisa comparsa in scena, la sua consacrazione in Francia, la possibile nomina a cardinale e infine – ed è ciò che maggiormente ci interessa in questa sede –, se veramente egli aveva fatto parte della curia romana, le poche novità emerse dalla sua documentazione, testimoni di una maggiore e cosciente adesione ai moduli cancellereschi della stessa che in lui trovano un sia pur timido interprete.75
Nella documentazione dei suoi immediati successori, Ugo e Bonifacio, non si segnalano avanzamenti, anzi, se mai, si possono cogliere qualche ripiegamento e soprattutto ripetute oscillazioni tra forme pubbliche e private. Sembrano sparire le stilizzazioni cancelleresche, in genere riprodotte nel già ricordato Liber privilegiorum; l’invocazione verbale In nomine Domini, largamente diffusa nella prassi notarile, è presente in un solo caso,76 ridotta ad un semplice segno di croce in due;77 la stessa intitulatio, addirittura assente nel decreto dell’arcivescovo Bonifacio, contiene solo la formula di devozione (divina o Dei gratia);78 in un caso addirittura l’arcivescovo [p. 52] Ugo ricorre al formulario del documento privato, sia pur premettendo che donationes et in alium collate liberalitates insinuationem desiderant, e all’intervento di un notaio;79 in un altro, che pure appare meglio strutturato nel protocollo attraverso le consuete intitulatio, inscriptio (dilectis…) e salutatio (salutem et gratiam), al quale segue l’arenga,80 correlata al dispositivo attraverso l’avverbio eapropter, la formula di corroborazione che richiama l’intervento del notaio e l’apposizione del sigillo (unica nota di rilievo in questo contesto),81 il ricordo dei testimoni e la sottoscrizione notarile (ma precepto domini archiepiscopi,82 laddove il documento precedente si chiudeva col tradizionale rogatus scripsi) ci riportano al documento privato; un altro, l’unico che risponde a modelli cancellereschi, aperto da un’arenga di buona fattura che si collega logicamente al dispositivo,83 la cui roboratio menziona sia la sottoscrizione personale dell’arcivescovo, sia l’apposizione del sigillo,84 si chiude con una sanctio modellata sul formulario pontificio,85 con le sottoscrizioni, oltreché del presule, dei canonici, disposte in ordine più o meno gerarchico (ma il disordine potrebbe essere imputabile alla copia) e col Datum che introduce la datazione espressa unicamente attraverso il millesimo ed il mese.
Peggio ancora si comporta il suo successore Bonifacio: il documento si apre subito con l’arenga,86 per passare al dispositivo, sia pur attraverso il ricordo [p. 53] dei precedenti interventi dei suoi immediati predecessori, per concludersi con una lunghissima minaccia che ricorda gli accenti ed i toni più cupi (né ce ne meravigliamo trattandosi di una scomunica) del passato87 ed un triplice Amen, senza alcuna sottoscrizione e data, assenza dovuta forse alla copia.
Per il secolo XIII abbiamo rintracciato solo sei documenti, tre dei quali originali, qui indicati e numerati di seguito ai precedenti:
- 23) 1204, aprile 29 – L’arcivescovo Ottone autorizza la costruzione del monastero de Valle Christi in Rapallo: Il secondo registro cit. (sopra, nota 1), n. 163; copia autentica in registro, del sec. XIV.
- 24) 1229, ottobre 28 – L’arcivescovo Ottone invita i fedeli a prestare aiuto alla chiesa di San Genesio, nella diocesi di Savona, e concede indulgenze a coloro che le faranno offerte: C. Soave, Le carte del monastero di S. Andrea cit. (sopra, nota 1), n. 23; originale.
- 25) 1245, maggio 14 – L’arcivescovo Giovanni concede indulgenze ai fedeli che visiteranno la chiesa di San Siro: Le carte del monastero di San Siro cit. (sopra, nota 1), n. 484; originale.
- 26) 1277, gennaio 29 – L’arcivescovo Bernardo concede indulgenze ai fedeli che visiteranno la chiesa di San Siro: ibidem n. 784; copia semplice del sec. XVIII.
- 27) 1277, giugno 15 – L’arcivescovo Bernardo concede indulgenze ai fedeli della propria diocesi che visiteranno la chiesa di San Giovanni dell’isola Palmaria: G. Falco, Le carte del monastero di San Venerio cit. (sopra, nota 1), I, n. CCXI; originale.
- 28) 1292, settembre 2 – L’arcivescovo Iacopo da Varagine cede ai canonici della Cattedrale i suoi diritti sulla chiesa della Maddalena di Genova: D. Puncuh, Liber cit. (sopra, nota 1), n. 124; copia semplice in registro del XIII secolo.
Pur nell’esiguità dei ritrovamenti, l’influenza del documento pontificio si manifesta più chiaramente che in passato. Rileviamo ancora, anche se solo [p. 54] in due casi, la presenza dell’invocazione verbale,88 mentre l’intitulatio (sempre aperta direttamente dal nome del presule, non preceduto quindi dal pronome personale), che nei due documenti di Ottone e in quello di Giovanni conserva entrambe le formule, di devozione e di umiltà (permissione/miseratione divina Ianuensis archiepiscopus licet indignus),89 va normalizzandosi con i successori: così Bernardo si intitolerà Dei gratia Ianuensis archiepiscopus,90 Iacopo da Varagine assumerà la stessa intitolazione, ma miseratione divina.91 Così ancora i loro documenti saranno correttamente indirizzati ora con l’inscriptio,92 ora attraverso il consueto formulario delle lettere patenti,93 mentre la salutatio, omessa in un caso,94 oscilla tra salutem et Sancti Spiritus benedictionem, salutem in Domino sempiternam e salutem in Domino.95 Arenga,96 narrazione dei fatti, là dove esiste, e dispositivo si presentano sapientemente strutturati, in perfetta adesione, in almeno due casi, come vedremo, al formulario pontificio; in uno solo sono presenti sanctio e minatio, anch’esse aderenti al dettato della cancelleria papale,97 in tre la formula di corroborazione: nei primi due si fa esclusivo riferimento all’apposizione del sigillo, benché poi uno dei due documenti rechi anche, oltre alla sottoscrizione dell’arcivescovo, cui seguono, su due colonne, quelle dei canonici della Cattedrale, in preciso ordine gerarchico, [p. 55] quella del notaio, che agisce iussu mandatoque dell’arcivescovo;98 nel terzo sia al sigillo arcivescovile, sia alla sottoscrizione notarile, regolarmente presente, ma espressa nella forma consueta dell’instrumentum.99
Quanto alla datazione, se si esclude il documento appena preso in considerazione, in cui alla data topica, introdotta dall’Actum, seguono millesimo, giorno, mese e indizione e l’indicazione dei testimoni,100 non diversamente dal documento privato, negli altri essa, iniziante col Datum, riferisce, con qualche variante, data topica e cronica resa attraverso giorno, mese e millesimo.101
Veniamo ora a due elementi che maggiormente riconducono agli usi della cancelleria papale.
Come si può constatare, due arenghe102 ricalcano alla lettera quelle tipiche del documento pontificio di tal genere; la prima, Quoniam ut ait apostolus, [p. 56] è assai nota nei secoli XII (da Eugenio III a Celestino III),103 e XIII, sicuramente fino a Bonifacio VIII,104 anche attraverso la diffusione per mezzo dei formulari dei dettatori, verso la metà di questo secolo, nonostante che la sua frequenza sembri rallentare nella seconda metà dello stesso;105 la seconda Licet is de cuius munere altrettanto fortunata nel Duecento per lettere di indulgenza.106
L’altro elemento si coglie dall’escatocollo del n. 23, dove, dopo la sottoscrizione del notaio, che agisce per disposizione dell’arcivescovo, si trova al centro, a separare le due colonne delle sottoscrizioni, dell’arcivescovo, seguita da quelle dei canonici presbiteri a sinistra, dell’arcidiacono, seguita da quelle degli altri canonici a destra, un quadrato, diviso da una croce in quattro quadranti: nei due superiori sono iscritte rispettivamente la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco; in quelli inferiori le due sillabe „Ot-to“ del nome dell’arcivescovo.
[p. 57] Sembra difficile respingere la suggestione,107 di una derivazione dalla rota papale, se le due lettere greche, presenti anche in altri contesti similari,108 intendono riferirsi simbolicamente, in guisa di motto o legenda, come penso, ai passi giovannei Ego sum alfa et omega, principium et finis dicit dominus Deus (Apoc. 1.8) o Ego sum alfa et omega, primus et novissimus, principium et finis (Apoc. 22.13). E tuttavia, mentre l’uso di questo quadrato, talvolta rettangolo, resta attestato ancora per diversi secoli, anche in atti meno solenni, la sparizione delle due lettere greche induce a qualche riflessione.
Non dubito affatto che la novità, riscontrata per la prima volta nel 1204, sia riferibile ad influenze del documento papale, anche se non così evidenti come quelle, mediate attraverso la cancelleria ravennate, di un privilegio bolognese nel quale sono presenti sia la rota, sia il Bene valete,109 diffusi entrambi (la rota a partire dal 1140, e non parrebbe esclusa l’influenza ravennate) anche in documenti beneventani;110 suscita invece qualche perplessità l’estensione di tale uso, sia pur privo delle due lettere greche, e in epoca molto posteriore (ma la mancanza di testimonianze intermedie limita le conclusioni che vorrei trarne), a gran parte della documentazione prodotta dalla curia arcivescovile genovese nel secolo XIV.111
[p. 58] Dunque, un particolare signum, destinato in origine ai documenti più solenni, accostabili ai privilegi papali, viene connotandosi in seguito come strumento di convalidazione dell’intera documentazione prodotta dalla curia arcivescovile, compresa quella emanata dal vicario capitolare in periodo di sede vacante. Già in passato l’Airaldi ha identificato, non del tutto appropriatamente, nel quadrato „l’autentica dell’arcivescovo“ accostandola ai numerosi signa comunali, „sia per la particolare configurazione grafica, sia per il fatto che la sua apposizione è affidata alla mano del notaio, che ne appare il depositario, sia infine in quanto espressione di volontà della maggiore autorità religiosa della diocesi.“ E tuttavia, rispetto a quelli comunali che „si richiamano impersonalmente all’autorità da cui promanano – Populus, Potestas Pulciffere, Consulatus burgi etc. – e si configurano graficamente in fogge stabili … nel signum arcivescovile la presenza del nome proprio dell’arcivescovo, sulle base del quale il signum stesso è graficamente strutturato, personalizza l’espressione di volontà, secondo moduli più arcaici della manifestazione del potere“.112
Orbene, io credo che senza scomodare moduli più arcaici (la sottoscrizione autografa del vescovo?), occorra riferirsi proprio al primo esempio di tale signum, quello che contiene le due lettere greche, e che compare nella nostra documentazione in epoca non sospetta, perché i diversi signa della cancelleria genovese, a parte quello cosiddetto comunis, già in uso nel XII secolo,113 in nessun caso rapportabile graficamente al nostro e a quelli posteriori, sono indubbiamente più tardi.114
Resterebbe così valida l’ipotesi della Rovere che identifica nella rota papale l’origine di tale segno,115 ma è possibile che nel prosieguo del tempo, [p. 59] l’influenza di quelli comunali si sia fatta sentire anche nella curia arcivescovile che estende all’intera documentazione da essa prodotta l’uso di un signum del quale, cadute le due lettere greche, sarebbero stati dimenticati origine e significato. Se così stanno le cose, non mi pare casuale che la scomparsa dei signa comunali nel secolo XV abbia coinvolto quello arcivescovile, anche se allo stato attuale delle indagini non siamo ancora in grado di offrire una risposta, neppure in via ipotetica, sui tempi e le ragioni di tale scomparsa, da porsi comunque in relazione alla maggiore diffusione dei sigilli.
Oltre ai documenti prodotti, non abbiamo rintracciato nulla di simile per i secoli seguenti. Sappiamo bene che fin dalla seconda metà del XIII secolo la curia arcivescovile aveva iniziato a dotarsi di una propria struttura burocratica, che nel secolo seguente assume tutte le caratteristiche proprie di una cancelleria centralizzata, anche se nessuno dei suoi scribi, curie o archiepiscopi, assume ancora il titolo di cancelliere.116 Non solo, ma con l’arrivo da Roma, nel dicembre 1400, di un giovane arcivescovo, Pileo de Marini, si introducono significative riforme anche a livello cancelleresco: prova ne siano le numerose collazioni di benefici, rese necessarie dal clima esasperato del grande scisma, che, tramandateci solo attraverso un registro, si modellano perfettamente su quelle della cancelleria papale, sia nella ben nota e caratteristica arenga (Vite ac morum honestas), sia nella datazione introdotta costantemente dal Datum, pur ricordando sempre nella corroboratio l’apposizione del sigillo.117
Due allora sono le conclusioni da trarre, entrambe meritevoli di approfondimento: la prima attiene ai modi attraverso i quali si introducono nel documento vescovile forme e linguaggio della cancelleria papale. Mi pare evidente che le novità di maggior spessore (a parte il caso del signum) siano attribuibili agli arcivescovi Siro e Pileo de Marini, riconducibili per entrambi alla loro formazione romana, sempreché siano accettabili le ipotesi avanzate sulle precedenti esperienze del primo.118
Quanto alla seconda, e si tratta di un argomento delicato sul quale i più giovani studiosi genovesi stanno conducendo un’ampia indagine, essa coinvolge l’intera problematica del notariato genovese nei secoli XII e XIII, soprattutto in rapporto alla „cancelleria“ comunale. In questa sede [p. 60] posso anticipare, sia pur come ipotesi di lavoro, che nel corso dell’intero XII secolo, e fino ai primi decenni del seguente, notai e Comune si confrontano, dialetticamente e con successi alterni, nella formulazione e definizione delle forme e della tipologia del documento comunale,119 che solo nel secolo seguente si verrà consolidando, grazie, soprattutto, all’opera del notariato che conquisterà, oltre alla stessa guida della cancelleria, tutte le strutture burocratiche comunali, ben identificabili attraverso i loro signa, che solo nel XV secolo dovranno cedere il passo all’invasione dei sigilli.
È possibile allora che le incertezze, le oscillazioni e le forme ibride da noi rintracciate nella documentazione vescovile rispondano alla stessa dialettica se il risultato finirà per coincidere con quello al quale è giunto il documento comunale? Per ora la risposta affermativa è solo implicita.