Il volgare nei documenti italiani medievali
Professeur, Università degli studi di Roma « La Sapienza », Scuola speciale per archivisti e bibliotecari, via Vicenza 23, I–00185 Roma. nicolaj@uniroma1.it
Il tema, complessivamente, è noto. Ma esso o è trattato in relazione alla storia della lingua italiana o, in una storia generale della cultura, è soprattutto misurato sul metro dell’eredità classica e quindi dell’umanesimo (XII-XV secc.). Si propongono, allora, in via del tutto generale, due problemi. [1] Il primo è quello di una valutazione peculiare della forma linguistica sia nel sistema specifico della documentazione diplomatica, sia nella storia particolare di tale documentazione. Di qui si ricava che, dopo una prima comparsa del volgare in parti significative del documento o in certi tipi di documentazione (secc. X ex.-XIII in.), il prevalere del notariato e dei maestri di ars dictaminis e poi il trionfo e l’egemonia degli umanisti (notai, cancellieri, ufficiali, ecc.), con i loro interessi di ceto, hanno bloccato a lungo, in Italia, l’uso della lingua viva e communis nella prassi giuridica e diplomatica. Solo i documenti dei mercanti e i documenti pubblici di genere finanziario, per motivi che indicheremo, hanno adottato il volgare nei loro contesti comunque tecnici e tecnicistici. Tutto ciò ha significato una separazione, che dura a tutt’oggi, fra tecnici del diritto, delle istituzioni, della politica e dell’accademia, e società civile. — [2] Il secondo problema è quello di una considerazione più calibrata dell’umanesimo, visto come medaglia a due facce : da un lato, la dottrina, la retorica, l’eleganza e il pensiero politico e tecnico ; d’altro lato, il divorzio fra una lingua comune e usuale e una lingua degli intellettuali (o tecnici anche, come quelli delle burocrazie), che è servito a difendere e a incrementare gli interessi degli ‘addetti ai lavori’, e a ingrassare la dimensione politica o accademica o tecnica, incistati nel corpo della società civile tutta.
Le thème, dans ses grandes lignes, est connu. Mais ou bien il a été traité en relation avec l’histoire de la langue italienne, ou bien, inséré dans une histoire générale de la culture, il a été avant tout mesuré à l’aune de l’héritage classique et donc de l’humanisme (XIIe-XVe siècle). On se propose ici, de façon très générale, d’affronter deux problèmes. [1] Le premier est celui d’une évaluation propre de la forme linguistique tant dans le système spécifique de la documentation diplomatique que dans l’histoire particulière de cette même documentation. Cet examen montre que, après une première apparition de la langue vulgaire dans des parties significatives du document, ou dans certains types de documents (fin Xe-début XIIIe siècle), la prépondérance du notariat et des maîtres de l’ars dictaminis, puis le triomphe et l’hégémonie des humanistes (notaires, chanceliers, officiers, etc.), avec leurs intérêts de groupe, ont longuement bloqué, en Italie, l’emploi de la langue vivante commune dans la pratique juridique et diplomatique. Seuls les documents des marchands et les documents publics touchant aux finances, pour des motifs qui seront développés, ont adopté le vulgaire, dans des contextes techniques et techniciens. Tout cela a signifié une séparation, encore effective aujourd’hui, entre techniciens du droit, des institutions, de la politique et de la vie académique, d’une part, et société civile de l’autre. — [2] Le second problème est celui d’une approche plus équilibrée de l’humanisme, vu comme une médaille à deux faces : d’un côté, la doctrine, la rhétorique, l’élégance, la pensée politique et technique ; d’un autre, le divorce entre une langue commune usuelle et une langue des intellectuels (et des techniciens, tels les bureaucrates), qui soutient la défense et l’accroissement des intérêts de ces “préposés aux travaux”, et le renforcement de la dimension politique, académique ou technique au sein de la société civile dans laquelle ils sont comme enkystés.
1. Il volgare nella storiografia : limiti e problemi
L’intrusione e la diffusione del volgare nella documentazione latina dell’Italia medievale costituiscono un tema ampissimo ma anche noto, almeno nelle grandi linee delle origini : esso, infatti, è già stato toccato in bellissime e dottissime pagine dalla storiografia letteraria e dalla filologia italiana ; e l’argomento della lingua (latina e volgare) del documento in Italia, ancora in questo convegno, verrà allargato dai diplomatisti ad altri importanti capitoli : così, per gli spazi insulari, a fronte del noto e particolare caso di Sardegna – una carta di concessione del 1080-1085 emessa dal giudice di Torres in volgare logudurese1 –, i documenti notarili di Corsica saranno trattati dal collega Silio Scalfati ; così, sullo sfondo dell’età e della vicenda di Dante, i professori Feo ed Antonelli apriranno un obiettivo speciale sulla Bologna dei notai, dello Studium generale e del suo utrumque ius di raggio europeo ; così, sulla scena della più alta cancelleria occidentale – quella pontificia, connessa peraltro con altre curie prestigiose d’Italia, da quella di Federico II a quella fiorentina umanistica, come ha ripetutamente illustrato Peter Herde2 – sono tornati e torneranno, fra ’400 e ’500, Thomas Frenz e l’amico Germano Gualdo3.
Il tema del volgare dunque è conosciuto. Ma esso è trattato in genere e soprattutto, ed è anche valutato, nell’ambito della storia della lingua italiana e delle lingue romanze tutte, ovvero nell’ambito più ampio di una storia di cultura generale, con due conseguenze inevitabili : che l’interpretazione dei fenomeni del volgare è condizionata prima dal solito confronto, aperto od implicito, con la cultura latina alta (letteraria, grammaticale e retorica) ; e che la misura degli stessi fenomeni è presa poi, più o meno consapevolmente, sul metro dell’umanesimo d’arrivo, movimento, questo, intoccato e intoccabile nella sua grandezza e gloria, ed anche innalzato a mito e tabù filologico, linguistico e letterario.
In queste prevalenti linee interpretative, però, possono trovarsi alcuni limiti ermeneutici e può annidarsi qualche problema : i limiti derivano dalla natura peculiare della documentazione diplomatica, che è scrittura di prassi e di cultura giuridico-istituzionali e che richiede perciò chiavi d’interpretazione proprie e non del tutto coincidenti con quelle della lingua parlata o della lingua scritta di testi letterari ; un problema, invece, è posto dal rapporto complessivo fra volgare e latino, quando il ‘latino’ sia considerato come ponte culturale e civile fra la lingua antica e splendida di Roma, che se è un’eredità è anche un passato, e la lingua d’età umanistica, che, se ha le sue vette, come qualunque capitolo storico è anche impastata di luci ed ombre.
Nell’intervento di oggi allora, riflettendo su dati già noti, vorrei proporre qualche punto di vista mirato più direttamente alla sostanza e ai caratteri propri e costitutivi del fenomeno documentario e diplomatico, e sollevare poi qualche scetticismo circa la indiscussa ‘bontà’ dello ‘splendore’ umanistico, considerato una pietra miliare e di paragone nella storia della lingua e della cultura italiana oltre che europea.
2. Storia linguistica e letteraria e cultura generale : alcuni equivoci
La lingua, come è noto, è un “corpo vivente” : nella sua fenomenologia si riscontra una perenne dialettica fra “tendenze” in atto e in evoluzione, da un lato, e “polarità”, “cristallizzazioni”, normazioni e “paradigmi stilistici”, dall’altro ; si coglie insomma, in una dinamica ininterrotta, una gamma ampia di diversificazioni e scale di “prestigio” fra lingua ‘alta’, lingue speciali e tecniche e quel parlare e scrivere communi et simplici sermone di cui diceva Lattanzio per la lingua latina4. È curioso, peraltro, che, parallelamente ma indipendentemente dai linguisti, la scuola paleografica francese di Jean Mallon, Robert Marichal e Charles Perrat e la scuola italiana di Giorgio Cencetti abbiano disegnato per la natura e la storia del fenomeno grafico una dinamica che è speculare a quella linguistica, e che è un divenire continuo fra scrittura normale/usuale/comune e tipizzazioni/nuove normalizzazioni/eventuali canonizzazioni5.
E storia linguistica e letteraria, storia della scrittura (paleografia) e storia della documentazione (diplomatica), come tutte le altre storie degli uomini, dovrebbero tendere ad una concertazione armonica in una storia generale della cultura. Invece, nella storia delle origini delle lingue moderne e in particolare del rinascimento fra XI e XII secolo, uno studioso straordinario come Aurelio Roncaglia, per esempio, nota che ad una cultura italiana “essenzialmente pratica e a indirizzo giuridico” si contrappone “una splendida fioritura dello spirito umanistico, delle lettere e della poesia latina, che ravviva la stessa epoca in Francia” e che là fa sbocciare “correnti arditamente razionalistiche” nella teologia (Abelardo) o una straordinaria lirica trobadorica, testimoniando così “il superiore dinamismo e prestigio della cultura d’Oltralpe” e una “rinascita umanistica il cui centro propulsore è in Francia”6 : e noi registriamo una volta di più, di fronte a tale assunto, quella strabiliante e antica frattura d’area umanistica, che taglia via il diritto e a causa della quale addirittura quasi non esistono agli occhi della storia culturale generale gli arditissimi e poderosissimi scavi dei giuristi di XI-XII secolo nei giacimenti classici e tardoantichi (in Cicerone, Gaio, Ulpiano e quant’altri) e non esistono, o almeno sbiadiscono, le gigantesche costruzioni intellettuali attuate dalla cultura giuridica italiana di quell’epoca.
Ancora un altro esempio, un altro punto di vista che solleva dubbi e problemi : quando nella lotta fra Federico II e la Chiesa si colgono con Herde le “qualità letterarie (…) risultato dell’ars dictaminis” di scritti cancellereschi, politici e propagandistici7, quando si coglie con Robert-Henri Bautier tutta l’influenza del primo umanesimo italiano e in particolare di Petrarca nelle cancellerie d’Europa e invece si lamenta poi “une véritable cassure dans l’élan de l’humanisme dans les chancelleries” europee, non italiane, nel secondo decennio del XV secolo8, o quando nella cancelleria fiorentina del primo rinascimento un Coluccio Salutati inneggia all’eloquentia e alla scolastica disciplina (dopo un Dante e il suo volgare illustre di Curia e un Petrarca, per esempio dei Trionfi !), mentre esecra che iam reges et principes non latine, sed gallice vel suis vulgaribus scribunt9, ecco, allora ci si chiede se non ci sia una valutazione acritica e dogmatica dell’umanesimo italiano, letterario e politico, e se alcuni dannati mali italiani, ancora attuali – come la lingua oscura e separata dell’accademia o il binomio politico “élitismo dei pochi” e “agitazione inconsulta dei più” o la tecnica retorica dei nostri cosiddetti intellettuali con il loro “ruolo esorbitante” nella scena sociale10 – non provengano da un “umanesimo civile” segnato di miseria e nobiltà, che è stato ed è anche strumento di prestigio e di potere di un ceto e perfino, per eterogenesi dei fini, strumento di una ‘cultura’ politica separata dalla società civile e nemica di una laicità autentica e sostanziale.
3. La lingua nella prassi documentaria
Veniamo dunque ai documenti medievali italiani e al volgare, cercando una ‘logica’, una spiegazione o, se si vuole, un filo conduttore nello svolgersi del fenomeno sia del bilinguismo (latino-volgare), sia poi di una qualche gerarchia o di una qualche frantumazione delle lingue nella massa documentaria del secondo medioevo. Come ripeto con petulanza, la documentazione diplomatica costituisce un filone imponente della prassi giuridica, e questa prassi, come è noto, segue dei procedimenti ‘tipici’ che si articolano in forme orali, scritte, gestuali e simboliche. Dal formalismo giuridico e dallo spettro ampio dei procedimenti della prassi derivano anche, come ho già scritto e come non starò a ripetere, varie ‘funzioni’ (giuridiche) del documento e alcuni larghi ‘generi’ documentari ; ricorderò soltanto, a sottolineare un punto di vista che ritengo imprescindibile, che gli scritti diplomatici, attinenti a un sistema di regole giuridiche e cioè coattive, hanno come fini generali il manifestare, fissare e render certo (firmare), il rendere conoscibile erga omnes o a determinati destinatari (edere, publicare, notum facere) e il testimoniare e provare eventualmente in ambito giurisdizionale i contenuti dei propri testi (probare).
Questi scopi – firmare ; edere, publicare, notum facere ; probare – coinvolgono e impegnano anche sul piano linguistico sia gli attori della prassi (emittenti e destinatari), sia i facitori di essa (cancellieri, notai, scribi in genere) e riguardano interi mondi giuridici. Per esempio, Nov. 112,3,20 del 541 recita :
« Iubemus enim ordinarios iudices non solum praeconum vocibus, sed etiam edictis propositis quamcumque litigatorum partem absentem in iudicium vocare : vocem enim praeconum pauci possunt qui praesentes inveniuntur audire, edicta vero per multos dies sic proposita possunt paene omnes agnoscere »,
mentre, secoli dopo, le lettere di papa Giovanni XXII circa la scomunica di Ludovico il Bavaro vengono pubblicate sia per affissione alle porte del duomo di Avignone sia per lettura pubblica e traduzione in volgare in tutte le chiese dell’ecumene cattolico :
« licteris ipsis primo lectis de verbum ad verbum » e poi ‘divulgando’ « tenorem ipsarum omnibus ibidem presentibus in vulgari loquela (…) particulariter et distincte »,
e con una serie di instrumenta indirizzati alla curia papale notai, giudici e testimoni certificheranno questa regolare attuazione procedurale11. Evidentemente, nei due diversi quadri storico-giuridici, per quella fase necessaria del procedimento che è la pubblicazione, la gerarchia fra oralità e scrittura è capovolta, e nell’esempio medievale la lingua comune e dell’uso – il volgare – ha un suo posto preciso. Un altro esempio : una denuncia al podestà di Bologna del 1289 è registrata nel registro dei malefici in lingua volgare e cioè evidentemente e validamente sotto il profilo giuridico è registrata così come è stata fatta12.
Insomma, a voler essere estremamente sintetici, funzioni e generi documentari, attori e artefici della rappresentazione documentaria s’intrecciano a determinare variamente confronti, gerarchie e registri linguistici in qualsivoglia sistema documentario storico, nel suo insieme e nei suoi settori. Mi spiego meglio.
4. Il volgare nella prassi documentaria : chiavi di lettura
Se la rinascenza carolingia, come è noto, ha rilanciato forme d’intelletto alte – disegni costituzionali imperiali, Accademia Palatina, e perfino scrittura di leges nazionali, di norme della Chiesa e di una qualche mitica lex romana13 –, l’inquieto mondo postcarolingio, invece, naviga più tempestosamente fra lotte e frantumazioni politiche, e quindi fra “dilatazioni universalistiche” e “contrazioni localistiche” ; ed è anche mosso da un “dinamismo policentrico” (per una formicolante “circolazione d’uomini, di manoscritti, d’idee”), comunque gravido di promesse14. Sullo sfondo europeo, il concilio di Tours dell’813 aveva consigliato, solo per la predicazione, la rustica romana lingua aut thiotisca, ma già i giuramenti di Strasburgo fra Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico dell’842 sono espressi e ‘fermati’ oralmente dai due sovrani utrorumque populus in teudisca e romana lingua ; a contrappunto, negli stessi anni, un’opera araba di geografia, trattando dei mercanti ebrei fra Occidente e Oriente e quindi indirettamente di rapporti e pratiche negoziali (e di eventuali documenti di commercio), sottolinea il poliglottismo dei mercati fra arabo, persiano, greco-bizantino dei Romani, lingua di Francia, lingua di Spagna e slavo15.
Nella situazione più frantumata e complessa del quadro italiano fra IX e XI secolo (fra Regnum, Chiesa di Roma e Meridione), la cultura alta e latina va da un Canto delle scolte modenesi (aa. 870-880) ricco di “reminiscenze” da Virgilio, Livio, Ovidio e dalla Antologia Palatina, e va da un Raterio di Verona, un Attone di Vercelli, un Liutprando di Cremona o un Gerberto d’Aurillac a un Pier Damiani, sì “legato allo studio degli auctores pagani” anche lui, ma insieme nemico “implacabile” della grammatica16. E l’incoronazione imperiale di Berengario del Friuli, che è altissimo atto giuridico-istituzionale, viene formalizzata, naturalmente a Roma nel 915, da inni del Senato in latino (patrio ore), da un elogio ufficiale in greco (dedaleis loquelis) e dalle acclamazioni del popolo in volgare italiano, nativa voce17. Invece, fra 960 e 963, in quattro placiti centromeridionali, le deposizioni dei testimoni in processo su un possesso trentennale – le famose « Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti » – vengono registrate così come dovrebbero essere state rese oralmente e perciò communi sermone, e vengono intrecciate ai gesti e ai simboli che sono parte integrante della testimonianza, e cioè alla tenuta in mano di quella abbreviatura (o breve) che elenca per iscritto i confini del possesso in questione e al giuramento sui Vangeli18.
A queste prime comparse del volgare nei documenti seguono, secondo una logica che già traspare, altre scritte in lingua che chiamerei usuale e moderna, e cioè in volgare : un conto navale di Pisa fra XI e XII secolo19 ; ancora deposizioni testimoniali del 115820 ; elenchi di affitti o di decime del XII secolo21 ; la scrittura di una permuta (o canbio) redatta nella forma della confessio autografa e cioè chirografaria22 ; un libro di banca fiorentino del 121123, nella forma, grosso modo, dell’antico codex accepti et expensi ; il breve di un costituto della compagnia del comune di Montieri (Volterra) del 1219, giurato da tutti gli uomini della comunità stessa24 ; i registri fiscali (Libro della Lira) di Siena del 1231-3225, ed altro ancora.
Già da queste prime testimonianze si coglie un primo modello teorico di lettura diplomatica del fenomeno. Vale a dire che, nel tornante che va dalla seconda metà del X secolo al primo Duecento (e cioè nell’età del rinascimento giuridico), deposizioni testimoniali (rese naturalmente oralmente) o manifestazioni di volontà singole o collettive come il costituto degli uomini di Montieri o come un più tardo testamento della contessa Beatrice di Capraia26 ovvero semplici elenchi, inventari, registrazioni relativi a situazioni di realtà quotidiane e dell’uso (affitti o pagamenti, per esempio) mostrano una qualche tendenza a una prima riproduzione ‘fedele’ nel documento e quindi sono scritte in volgare, così come sono state espresse.
5. I signori della prassi
Ben presto però questo indirizzo di ammodernamento viene soffocato dalla vittoria istituzionale del notariato italiano, che proprio nel XII secolo s’è assicurato la funzione d’autenticare l’instrumentum27 e che è forte sia della sua speciale professionalità sia del suo peso corporativo e della sua egemonia sociale o, come scriveva un caro e bravissimo diplomatista, di “prestigio e potere”28. E le scritture documentarie vengono così riassorbite dal e nel latino dei notai : un latino che frattanto ha trovato un’espressione grafica più colta ed attuale nella minuscola29 e s’è anche rinnovato sotto il profilo linguistico generale30 e specialistico con l’ars dictaminis e il diritto.
Allora il volgare resta appannaggio quasi esclusivo della documentazione economica, contabile e finanziaria, in primo luogo privata (mercantile e non notarile) ma anche pubblica, per alcune scritture d’ufficio garantite anch’esse da notai e però amministrate da campsores, rationatores, insomma ragionieri e contabili31. E poiché il ceto mercantile e produttivo è anch’esso forte e, soprattutto in alcune piazze, dominante, capita che a Siena, agli inizi del ’300, gli Statuti siano ‘tradotti’ in volgare32, evidentemente per un destinatario che rifiuta intermediari ed interpreti, anche se Boncompagno, dettatore famoso, ha scritto con una qualche arietta di snobismo : mercatores in suis epistulis (…) fere omnes et singuli per idiomata propria seu vulgaria vel per corruptum latinum ad invicem sibi scribunt et rescribunt33. Per inciso, la documentazione dei mercanti presenta caratteri molto interessanti anche dal punto di vista diplomatistico : si tratta di scritti a funzione rappresentativa e ricognitiva e in forma di brevia – elenchi, inventari, conti o rationes private o pubbliche –, o di scritti a funzione sia negoziale (obbligatoria, dispositiva) sia probatoria ed esecutiva e in forma di chirografo o di epistola.
Quali, invece, i fattori e i motivi della sconfitta del volgare nella documentazione italiana tutta, a parte quella prodotta dai mercanti ? Direi proprio gli intellettuali grandi e piccoli, i doctores e domini legum, i maestri e gli specialisti di dictamen e di notarìa. Questi, con il loro umanesimo culturale e civile, incrementano non solo il recupero e il potenziamento di un grande patrimonio culturale (letterario e giuridico), ma si costruiscono anche come establishment intellettuale e corporazione d’interessi, che si fanno ben presto, in qualche modo, “conservazione” e “diaframma” verso la vita quotidiana e comune : ecco allora opposizione e “divorzio fra cultura letteraria superiore e (…) livello generale d’esperienza”, ecco divaricazione, “distinzione” e “distanza” fra latino delle carte (colte o di prassi, cancelleresche, burocratiche o private notarili) e lingua parlata34.
Certo, personale di cancelleria e notariato conoscono bene il nuovo e moderno volgare : si pensi alla scuola poetica siciliana formata dall’élite della cancelleria federiciana35 ; o si ricordi, in modo sparso, la postilla notarile in volgare in calce ad un documento di donazione di Montamiata del 108736, o la minatio di una morte come quella del traditore Gano in uno scritto di societas fra milites e consules di Nepi del 113137, che rivela chiaramente una grande familiarità con i cantari d’Oltralpe, o il volgarizzamento umbro-aretino di un formulario notarile modellato su quello di Ranieri38, o l’uso del volgare previsto da Guido Fava per atti e scritti di parlamenti o elezioni39, o la configurazione dell’esame di notariato a Bologna a metà ’200 da sostenersi litteraliter et vulgariter40. Ma il latino d’uso professionale, se è veicolo di gran cultura e di alti concetti giuridici, è anche strumento di definizione cetuale e di affermazione e potere sociale, e quindi irrinunciabile. Certo, chi fa un negozio dovrebbe capire le regole giuridiche tra le quali si muove e dovrebbe fare dichiarazioni di volontà o manifestazioni di scienza chiare e intellegibili, così come i cittadini di un comune o i sudditi di un signore dovrebbero capire le norme che li riguardano ; ma continuano e continueranno a trovare scribi gelosi con i loro filtri espressivi all’antiqua o, alla peggio, con quell’accidente di latinorum che ancora secoli dopo stigmatizzerà Alessandro Manzoni.
I mercanti soltanto, con la forza dei loro interessi organizzati, pragmatici e cosmopoliti, impegnati in commercio e finanza, vanno per conto loro, alla moderna e secondo un proprio ius mercatorum, con documenti negoziali e probatori peculiari, riconosciuti in tribunali speciali e legittimati dalla dottrina e dalla norma giuridiche sulla base di modelli ed istituti romani restaurati e aggiornati41 e inseriti in un sistema generale de instrumentis, seguiti per affinità di materia da alcuni uffici finanziari pubblici. Ma così, noi rileviamo una ulteriore isola nell’arcipelago sociale e civile d’Italia.
6. « Trahison des clercs » e separazioni delle lingue
E su questo arcipelago di interessi particolari, organizzati e difesi, passano troppo alti i grandissimi Dante in esilio, i Petrarca inquieti e di corte, i Boccaccio dilettosi, pur letti, goduti e glorificati ; passerà troppo alto Galilei con la sua straordinaria scienza in volgare e (ancor peggio !) sperimentale. E, mezzo secolo più tardi, passerà troppo alto il Giovan Battista De Luca del Dottor Volgare e Dello stile legale con la sua “diffidenza, se non proprio avversione verso la giurisprudenza elegante”, verso la teoria scissa dalla pratica e con il suo laicismo42.
Con l’umanesimo dunque, con l’umanesimo tanto celebrato, si accentua la separazione della lingua dei documenti dal linguaggio comune e da tutti capito. Certo, del ’400 e ’500 sappiamo ancora troppo poco dal punto di vista della diplomatica ; anzi, sarebbe importante pensare ad una raccolta sistematica di dati in proposito. Però sappiamo che da una costola di quegli scribi gelosi del XII-XIII secolo vengono i cancellieri fiorentini smaltatissimi – i Salutati con la loro “personale avversione per il volgare”43, i Bruni, Marsuppini, Bracciolini o Accolti –, e viene “l’ibridismo linguistico dei cancellieri” lombardi, dovuto al fatto che una “precoce comparsa” del volgare nella cancelleria viscontea nel 1427 è subito cancellata dal “mito classicista” trionfante44 ; e sappiamo anche di apparati burocratici e di corpi notarili forti e sempre meno flessibili : ci si chiede, allora, quanto antichi e nuovi chierici abbiano accompagnato particolarismi sociali e debolezze geopolitiche di un paese troppo ricco di cultura e talenti e insieme forse troppo povero, al di là dell’oratoria ‘politica’, di senso della responsabilità personale e collettiva.