[p. 81] La prima documentazione del Senato di Roma (secoli XII-XIV)
La consapevolezza tradizionale della connessione tra Diplomatica — in particolare quella pubblica — e Storia delle istituzioni, riaffermata esplicitamente da Robert-Henri Bautier in una larga relazione sulle cancellerie nel 19851, è stata oggetto negli ultimi anni di ricerche condotte sul doppio versante della Diplomatica e della Storia giuridica e di esperimenti esegetici mirati ad innovare e disegnare un diverso quadro di riferimento per la Storia della documentazione2 : l’esame della documentazione prodotta dal Senato di Roma al tempo della sua renovatio (da collocarsi fra l’8 agosto e il 6 ottobre 1144) va evidentemente condotta in questa prospettiva ; esso trarrebbe indubbio vantaggio anche da un quadro dettagliato e magari colorito della storia urbana, ma a questa è possibile viceversa solo accennare per linee generalissime, data la complessità dei rivolgimenti che la caratterizzarono di continuo in quegli anni.
Su tali rivolgimenti tuttavia è opportuna almeno una riflessione : definiti spesso genericamente “convulsioni” dagli storici3, essi non possono essere classificati alla stessa stregua delle agitazioni interne alle altre città italiane, dal momento che, a rendere assolutamente peculiare la situazione romana, vi sono due elementi irripetibili : la presenza del papato4 e la strenua persistenza del [p. 82] mito della grande Roma5.
L’insediamento del Senato rinnovato “in Capitolio” fece seguito all’ ennesima — e non risolutiva — guerra contro la vicina Tivoli e fu subito accompagnato dalla pretesa della giurisdizione sulla città e sul territorio e dalla pressione esercitata sulla Chiesa perché si sostentasse, come in antico, di sole offerte e decime6.
Tale impostazione determinò l’allontanamento del pontefice dalla città e, conseguentemente, una sorta di vuoto di potere nel quale il Senato, rimasto l’unica magistratura, si dimostrò incapace di disegnare una propria autonomia politica di carattere — per così dire — comunale, per riproporre invece la vecchia immagine della città caput mundi7, sede naturale dell’Impero, capace di vita solo all’interno del modello imperiale.
E questa idea del mito della grande Roma, dove la dignitas del Senato e del popolo romano coincide con l’interesse della res publica, simile a una vena sotterranea sempre viva, pronta a riemergere (vedi Cola di Rienzo), ma anche — e di converso-veste di una malinconica restauratio o richiamo di fantasmi, si manifesta anche laddove i successivi eventi storici rendono obbligatoria la dichiarazione di fedeltà al papa di Senato e senatori : “Dignitas Senatus populique Romani in optimum statum roboratur et rei publice nimium confert si pacis concordiam inter sacrosanctam Ecclesiam et inclitam Urbem…sollempni scripturarum exaratione reducamus… ; per habundantiam namque pacis, auxiliante Deo, patrie crescit defensio et Romane Ecclesie atque Urbis egregie dignitas conservetur illesa”8 : l’evidente subordinazione viene dunque mascherata e presentata quale fattore di rafforzamento del potere civile, con l’affiancare all’affermazione della dignità di Roma quella dell’utilità e opportunità della concordia con il pontefice.
[p. 83] La cesura che la renovatio rappresenta rispetto al passato è netta ; riconoscibile il disegno politico iniziale : il concetto di sovranità9, già connesso al potere imperiale e per questo tramite alla divinità, torna a dichiararsi collegato al popolo — anche se il termine di popolo ora è carico di una buona dose di ambiguità10 — ; il bisogno di affrancarsi dall’ingombrante potere pontificio scivola naturalmente in un progetto filo-imperiale : nell’augurio a Corrado III di riportare l’Impero al felice stato dei tempi di Costantino e Giustiniano “qui totum orbem vigore Senatus et populi Romani suis tenuerunt manibus”, è significativamente inserito l’inciso “Senatu pro his omnibus — appunto il bene dell’Impero — Dei gratia restituto”11.
La presenza in Roma del centro del potere temporale della Chiesa è la variabile che segna in negativo i destini di questo progetto e tuttavia, negli accomodamenti con il Pontefice, non mancherà di esplicitarsi quanto meno l’augurio che l’azione del papa si realizzi “cum honore…Urbis et Senatus”12 : nell’oscillazione tra orgogliose rivendicazioni di autonomia e forzate sottomissioni alla Chiesa si consuma un secolo di storia di questa istituzione di gloriosa memoria, ma inadeguata, o forse solo inadatta, ai tempi.
E ad epigrafare lo scarto che separa Roma dai Comuni dell’Italia settentrionale basta il confronto tra le clausole poste in calce alla promessa di osservare i patti di reciproca alleanza da parte di romani e genovesi ; laddove i primi devono precisare “salva…fidelitate domni pape et domni imperatoris”, i secondi si limitano a dire “salva…fidelitate domni imperatoris”13.
Purtroppo ogni indagine sui primi cento anni che seguono la renovatio è complicata dalla scarsità di fonti documentarie : straordinaria e ben nota, oltre che assai lamentata, è infatti la povertà di documenti che caratterizza Roma, non solo per l’alto medioevo, ma anche relativamente al periodo qui considerato ; e tuttavia proprio tale povertà è di per se stessa stimolo a compiere ulteriori tentativi di indagine sul materiale superstite : sebbene questo risulti in effetti già [p. 84] edito dal Bartoloni nel suo Codice diplomatico del Senato di Roma14, e dallo stesso studioso ulteriormente esaminato in un famoso articolo15, è pur vero che l’analisi cui è stato nel suo insieme sottoposto si limita a protocollo, escatocollo e ai caratteri estrinseci, essendo stato tralasciato il testo, che può invece essere sottoposto a qualche utile sondaggio, come ha dimostrato Cristina Carbonetti per i documenti dei Magistri aedificiorum Urbis16.
Pur senza entrare nel merito della grande variabilità di elementi che compaiono nei documenti a configurarne la forma e a proporne funzione e valore — segno di incertezza e approssimazione diplomatica, una sorta di stadio dei tentativi, su cui torneremo — si può individuare una trama di ispirazione prevalentemente civile e pubblicistica, abbastanza peculiare della situazione romana.
Prendiamo in considerazione alcune intitolazioni : già la più comune “Senatus populusque Romanus” mostra, connessi, l’orgoglio di richiamarsi al mondo romano e la persistenza di una forma istituzionale, diplomatica e mentale, e perdura anche quando si riafferma il potere della Chiesa, limitandosi a posporsi al papa-destinatario17 (anche se nel saluto appare “fidele cum subiectione servitium”) ; spia ancor più chiara dell’autoconsiderazione dell’istituzione si ha poi quando gli autori, i consiliatores curie sacri Senatus, si definiscono anche “communis salutis rei publice procuratores”18, laddove alla sacralità del Senato risorto viene efficacemente e consapevolmente affiancata l’espressione più classica del concetto di Stato.
Il ricordo dell’autorità pontificia è stranamente richiamato proprio nei primi anni, quelli di più radicale indirizzo filo-imperiale, e fa parte di quelle ampie oscillazioni che abbiamo prospettato : gli autori “nos senatores”19, specificando anche il loro numero, la loro funzione (pro regimine Urbis) e la loro durata (annuatim) si dicono “constituti” non solo “[a] magnifico et reverendo populo Romano” ma anche “a domino Eugenio papa Pisano totaque veneranda et apostolica curia”, quasi avvertissero la necessità di giustificare la loro azione richiamandosi pure — e in prima posizione — all’autorità tradizionalmente attestata e riconosciuta in Roma.
Ma il senso di sé emerge forse nel modo più chiaro proprio nelle formulazioni più semplici, dove, non riscontrandosi ridondanza di elementi evocativi [p. 85] e solenni, non può nemmeno sorgere il sospetto che questa copra un deficit di consistenza, una fragilità sostanziale di cui il nuovo potere è in cuor suo consapevole : in una citazione in giudizio del 1163 gli autori20, senza bisogno di specificare da chi ripetano la loro autorità, si limitano a dirsi “nos senatores”, effettuano l’ingiunzione e seccamente precisano “alioquin legitime procedemus”.
In un documento che è significativamente qualificato come apices21, l’intitolazione recita “nos senatores a reverendo atque magnifico populo Romano pro pace infra Urbem et extra manutenenda et singulis sua iustitia tribuenda in novo consistorio Senatus annuatim in Capitolio constituti” : la fonte del potere torna ad essere solo la delega ricevuta dal popolo romano, della quale si specifica sede e durata, e si pone l’accento sull’affermazione forte della funzione di mantenimento della pace e di amministrazione della giustizia, che del resto è da sempre campo di sovranità e, come dice Torelli, “è una delle prime funzioni che nel periodo delle origini comunali il popolo si attribuisce”22.
D’altra parte nell’espressione, che pure troviamo “nos senatores pro iustitia cuique tribuenda” o “pro…singulis sua iustitia tribuenda” pare di avvertire l’eco, se non di un vero e proprio programma politico, quanto meno di una generale tensione verso obbiettivi più moderni — con base in famose definizioni romanistiche23 — all’interno della quale si profila una figura nuova di civis portatore di diritti, ben lontano dal classico fidelis della corte papale, al quale ogni ottenimento è non riconosciuto, ma esclusivamente concesso.
Nella forma epistolare, che si modella per lo più sugli esempi più semplici della cancelleria pontificia, accade anche di proporre un ordine gerarchico in cui gli emittenti, dopo essersi definiti “senatores Urbis urbium”, pospongono tranquillamente alla loro menzione quella del sovrano di Francia, destinatario : “Lodovico … amico … karissimo”24 : e d’altronde siamo ancora al 1164, quando non è ancora emersa la formula istituzionale “Rex superiorem non recognoscens in regno suo est imperator”25.
Nelle intitolazioni l’Urbs urbium diventa spesso “alma”, “alma et veneranda” ; il Senato classicamente “amplissimus” per la maestà e dignità dell’ ordine, oltre che “sacer” perché tradizionalmente considerato parte del corpo dell’imperatore26 ; i senatori “illustres”, qualcuno di essi “summus” ; il popolo romano è ricordato a fianco dei senatori come “universus”, “inclitus” (ma in altre [p. 86] parti dei documenti diventa anche “metuendus”)27 e se ne fissa l’immagine mentre, raccolto in assemblea sul Campidoglio “ad sonum campane et bucinarum” e talvolta “voce preconis”, “publice et plenissime”28, “publice et magnifice”, esprime la propria volontà attraverso una pratica che potremmo definire in termini moderni di democrazia diretta : l’azione del senatore si giustifica allora non solo “decreto et auctoritate sacri Senatus”, ma anche “mandato…et instanti acclamatione incliti populi Romani”29.
Procedendo nell’esame del testo e delle sue forme interne troviamo talvolta, collegate sintatticamente all’intitolazione, le motivazioni generali che muovono all’azione : “cunctis bonis…pacis ac iustitie gaudia…amplificare, …lites…dirimere, omne litium et controversie incendium… extinguere”30, ma anche, con specifico riferimento al periodico rinnovo dei senatori in carica, “quatenus … ex personarum permutatione Senatus nullatenus vaccillare noscatur”31, o, brevemente “ad posterorum memoriam”32 ; ci imbattiamo anche, come nel caso delle concessioni rilasciate ai canonici di S. Pietro33, in articolate argomentazioni sull’opportunità di prediligere la chiesa intitolata al Principe degli apostoli, dal momento che questi è “Urbis patronus, adiutor…et defensor”.
Questi documenti destinati ai canonici di S. Pietro, che non a caso sono detti privilegia, presentano caratteri di solennità superiori alla media, tra i quali è senza dubbio da annoverare anche la presenza delle succitate arenghe in onore del Santo ; anche la composizione34 del 1188 — ma meglio si direbbe sottomissione, poiché vi si riconosce la supremazia del papa, rendendogli Senato, città e regalia — presenta una arenga, oltre alla sanzione e all’elenco dei senatori : e tale ammantarsi di forme solenni obbedisce in questo caso, dato il rilievo negativo del contenuto in danno del Senato, a una sorta di legge del contrappasso e si mostra come un tentativo di compensare, o almeno minimizzare, l’obbiettiva diminutio subita. Quelli che comunque presentano sistematicamente la presenza delle arenghe sono i documenti dovuti alla mano di scriniarii35, che si tratti di patti o di lettere memoriali, di pubblicazione di consilia, di liti o di testimonianze.
[p. 87] Ben si attaglia a un trattato di pace — quello con i pisani, cui è premessa36 — l’esaltazione del valore della concordia, in cui risuona chiara l’eco canonistica : “Nil Deo carius” è detta, in opposizione alla discordia apprezzata dall’antico Nemico, ma l’apertura della frase recita “in antiquis modernisque apicibus invenitur quod…”, ponendo in primo piano il contenitore — tutto umano e culturale — di quella verità, e riallacciando l’azione documentata al filo delle attestazioni alte che attraversa le epoche, dall’antica alla moderna, e che rende il principio indubitabile e ne fa pure fonte di garanzia per il patto.
Il motivo conduttore posto in premessa dagli scriniarii — ma anche da “Centius alme Urbis cancellarius”37 — è quello tradizionale in Roma, vale a dire il valore della scrittura durevole contrapposta alla labile oralità38 ; sia che dichiarino di derivare la loro legittimità dalla Chiesa (sancte Romane Ecclesie), dall’Impero (imperialis aule, sacri Romani Imperii) o dal prefetto (alme Urbis prefecti), tutti gli esponenti attestati della categoria condividono questa tesi, ed essa, chiara spia del mutato clima di cultura giuridica, poggia su una sorta di fondazione istituzionale operata da questi stessi professionisti sulla base degli elementi logico-giuridici della norma riscoperta, funzionali e pratici anche quando di origine antiquaria39 : del resto Giovanna Nicolaj già notava che “il notariato italiano è … magna pars di un inizio di ricostruzione culturale e giuridica”40 e che “indizi suggestivi…di riflessioni nuove e riscoperte partono dai notariati di Roma e di Ravenna”41.
La perpetua firmitas è l’obbiettivo imposto dalla “ratio iuris…et imperialis auctoritatis norma” attraverso la scrittura “in publica monumenta”42 — come si afferma lucidamente e con rinnovata, forte prospettiva culturale in un documento del 1185 — laddove invece la memoria potrebbe estinguersi “lapsu temporis vel necessitate oblivionis”43 se non consegnata “publicis licteris”44 ; dalla fatale dimenticanza potrebbe addirittura derivare con facilità “ambiguitas…non [p. 88] modica”45, ma proprio contro questo rischio “utiliter accessit autentice scripture suffragium”46 : solo così è garantita ai posteri la persistenza della memoria e ai contemporanei la chiarezza dell’interpretazione.
Il “presidium publicarum litterarum”47 è considerato un dato obbiettivo ; “acta publica si litterarum memorie tradita fuerint…perpetua inspectione clarescunt”48 è l’affermazione della sicura capacità di tramandare ai posteri un messaggio inequivoco ; non conosce eccezioni il principio che ci si affida alla scrittura (publicis litteris) “ne rei veritas pereat”49 ; non a caso del resto “provide a iure cautum reperitur”50 che si redigano per iscritto le testimonianze rese (acta et confessiones…publicentur).
C’è in tutti questi enunciati la comune fiducia della categoria nella rappresentatività della scrittura, quasi l’interpretazione ne fosse sempre automatica, necessaria e univoca ; c’è l’impegno civile a trasmettere un bagaglio di dati incontestabili ; c’è il senso antico e alto di eventi che trascendono la pochezza e la brevità della vicenda umana individuale e perciò sono destinati a una più lunga conservazione : elementi tutti che rivestono di echi e sfumature il vero problema di fondo, che è quello del rinnovamento — in una società nuova — di norma e prassi giuridiche, affrontato da un ceto di giuristi pratici, con una nuova “soluzione”51 che conferisce valore ‘pubblico’ al documento52.
Nelle sanzioni, che nel caso di sentenze o arbitria53 sono semplicemente pecuniarie, il tono più acuto si raggiunge nel comminare la pena di morte per chi arrechi danno alla Colonna Traiana54, insistente sul fondo oggetto della concessione : di essa si prescrive l’integrale conservazione “unquam…diruatur aut minuatur”, a prevenzione di un rischio che senza dubbio appare ai senatori oltremodo concreto dopo epoche di largo saccheggio delle rovine classiche, ed è una tutela di cui non è necessario argomentare i motivi, ma che viene vantata [p. 89] ad onore di tutto il popolo romano. Siamo di fronte a un simbolo parlante, in cui magnificenza e monumentalità si sposano alla sopravvivenza attraverso i secoli ; questa durata, che sfida la caducità intrinseca caratteristica di qualunque potere, tanto più deve essere garantita dall’istituzione che, con indubbi intenti autofondanti, protende le sue radici verso i fantasmi della classicità romana : “integra et incorrupta” dunque “permaneat, dum mundus durat, sic eius stante figura”.
La formulazione della diffida a contravvenire è di solito “nullus senator”55 — o “nulla persona” o ancora “nullus concivis, amicus vel fidelis” “contra…venire presumat” ; l’intento è di ottenere dal Senato — e talvolta anche da tutta la res publica — “amorem”, “bonam voluntatem”56, “gratiam”57 ; la sanzione vera e propria è invece introdotta da “si quis vero” e prevede ira e odio58 da parte del Senato o anche del popolo romano, per l’occasione qualificato come amplissimus59, come pure può prevedere “indignationem et iram perpetuam”60 in collegamento con l’espressione “nulli ergo omnino liceat…si quis autem…attemptare presumpserit” che ricalca quasi alla lettera l’analoga formula della cancelleria pontificia.
Non privo di rilievo, poi, e — esso sì — leggibile nell’ottica di un sentire di tipo comunale, appare il fatto che la pena pecuniaria, quando è prevista, sia almeno in parte — di regola nella misura della metà — destinata alla manutenzione delle mura, essendo queste il simbolo per eccellenza della città, che attraverso di esse si definisce come entità visibile rispetto al mondo esterno.
Circa le datazioni, già con tanta acribia studiate dal Bartoloni, merita qualche considerazione in più la presenza di un elemento cronologico specifico di questa documentazione, vale a dire l’era del Senato, attestata nella seconda metà del secolo XII (tra 1151 e 1201) e segnale ulteriore della decisione di contrassegnare come epocale il cambiamento intervenuto nelle istituzioni ; ma, accanto alla focalizzazione della natura del dato, non deve sfuggire il senso aggiuntivo che deriva dal suo inserimento all’interno di una serie di altri elementi cronologici e la sua posizione — per così dire gerarchica — nella serie stessa : non si può infatti ragionevolmente pensare che l’ordine degli elementi sia frutto del caso, mentre è invece logico ritenerlo procedere volta a volta da specifiche valutazioni di opportunità, laddove invece l’ipotesi di un meccanico ripetersi di successioni abituali sarebbe indizio dell’esistenza di una gerarchia di [p. 90] poteri ormai consolidata in profondità e dagli scriventi tanto interiorizzata da essere riproposta senza eccezioni. Su undici casi in cui l’era del Senato è presente, a volte nel protocollo a volte nell’escatocollo, in sette61 si trova in posizione iniziale, prima di indizione, mese e giorno ; in uno62 è pure in posizione iniziale, precedendo nell’escatocollo indizione e mese, ma nel protocollo dello stesso documento appare l’anno di incarnazione ; in due63 è poi in ultima posizione, una volta di seguito a anno di pontificato, indizione e mese, un’altra di seguito a anno di incarnazione, indizione, mese, anno di pontificato ; in uno64, infine, segue l’anno di incarnazione e l’indizione precedendo mese e giorno.
Simile affastellamento di elementi non stupisce lo studioso della materia, poiché rientra nelle più ampie categorie diplomatistiche — e rinvio ai citati lavori di Giovanna Nicolaj — dell’accumulo e della complessità che caratterizzano in linea generale gli stadi formativi della documentazione e che si possono riconoscere ogni qual volta una istituzione al debutto — nel nostro caso alla rinascita — tenta di dotarsi di forme documentali a sé confacenti, in ordine al duplice obbiettivo dell’affermazione della propria statura e della funzionalità dello strumento sul piano pratico-giuridico.
E per il raggiungimento di tali obbiettivi ci si affida qui a un ventaglio di elementi volta a volta diversi — in qualche caso accostandoli — che va dalle sottoscrizioni notarili65 al sigillo dell’autorità, dall’uso di forme solenni66 ad altre semplici67 quando non addirittura essenziali68 ; anche nell’ambito di una stessa tipologia — dando per scontato che la definizione tipologica può scaturire solo dal linguaggio dei documenti stessi — la realizzazione non è costante : si dicono quindi, ad esempio, egualmente privilegia sia documenti dall’aspetto assai semplice e sobrio69, anche nel formato, sia documenti70 che emergono nella ricerca di solennità, ispirandosi ad analoghi esempi della cancelleria pontificia, con evidenti effetti di imitazione. Tracce di sigillo cereo — purtroppo costantemente deperdito — si possono trovare tanto in esempi ricchi di forme solenni quanto in esempi di tali forme del tutto privi : essendo il sigillo l’elemento di roborazione più importante e tipico, all’epoca già fondamentale e ampiamente [p. 91] diffuso, l’assenza di esso in taluni documenti — e indubitabilmente fin dall’origine — non può non stupire e sollevare ombre anche sul problema della tradizione, dal momento che a rinunciare a tale importante corroborazione sarebbe una istituzione, viceversa, palesemente tesa a esaltare la propria immagine con ogni mezzo.
In sostanza ciò che in questo primo secolo di vita non riesce a maturare è un filo evolutivo delle forme verso la stabilizzazione : varietà e approssimazione di tipologia sono infatti grandi e il quadro che se ne può trarre resta indefinito e fluido, forse per la quantità di modelli con cui gli scriventi si misurano, certo a causa dell’incertezza di sostanza.
La domanda che viene da porsi è quale sia la funzione del Senato — anche se non c’è dubbio sulle aspirazioni di partenza — e cioè se tale funzione non finisca per essere, all’interno dell’arco di tempo considerato, solo di ratifica ed esecuzione, a semplice conclusione di una iurisdictio proveniente dal pontefice ed esercitata dai suoi giudici : “…sapientum accepto consilio, iuris et equitatis muniti presidio…possessiones…confirmamus… Ut autem hec nostra confirmatio…firma consistat in aevum…presens privilegium scribi et sigillo sacri Senatus signari…iussimus…pro salute totius alme urbis Rome et custodia iustissimi eiusque fidelissimi ac devote famulantis Senatus et populi Romani”71 ; “Relato…sapientum…consilio et etiam in scriptis nobis ostenso…canonicos…liberos et quietos fore decrevimus et…presentes reverendi Senatus apices…fieri iussimus”72 ; “Nos…senatores Urbis eterne dicta consilia confirmamus et rata omnimodis habemus, precipientes…ut Senatus per tempora firma et rata habeant…et ad effectum perducant et tueantur”73. E l’ipotesi è confortata non solo da tutti quei documenti nei quali il consilium dato dai giudici ordinari si limita a recare in calce l’ordine di sigillazione dei senatori, bensì anche da quei casi in cui il consilium, privo di tale intervento, è comunque conservato dal destinatario, il quale mostra con tale comportamento di attribuire ad esso valore, anche in assenza della formalità ultima.
Il dato di maggiore spicco dei documenti del Senato romano, comunque, risiede nel loro proporsi in partenza come pubblici, dal momento che l’istituzione, diversamente dai Comuni del nord che conquistano e ampliano progressivamente il loro campo di autonomia e la loro capacità certificatrice, si autoattribuisce, nel momento stesso in cui proclama la renovatio, le prerogative massime dell’antico Senato : tali prerogative vengono peraltro rapidamente perdute nei fatti, e, anche se se ne mantiene pervicacemente la memoria col reiterarne di continuo la formulazione, in realtà ci si avvia a una più modesta dimensione [p. 92] municipale, di cui è esempio la produzione dei Magistri aedificiorum su questioni di esclusivo respiro — per così dire — urbanistico (si dicono infatti “positi et constituti ab amplissimo Senatu et populo Romano super questionibus murorum, domorum … et universorum edificiorum intus Urbem et extra”).
In sintesi, il percorso compiuto dal Senato nel suo primo secolo di rinnovata esistenza è dunque diverso da quello dei Comuni settentrionali contemporanei e, insieme, da quello di ogni altra città, e ciò per il caso che vuole Roma collocata a uno snodo della storia nel quale fortemente confliggono spinte antagonistiche : da un lato lo spirito autonomistico nutrito dalla crescita economica — tale crescita è ormai documentata74 : non dimentichiamo che tra i finanziatori di Federico II si sono trovati proprio mercanti romani — ; da un altro la compressione subita nello scontro tra gli obbiettivi contrapposti di Impero e Papato, in lotta per la spartizione delle sfere di potere e interessati entrambi alla città simbolo ; da un altro ancora l’ingessamento in un’autorappresentazione anacronistica di Urbe potente e fonte di potere.
E, se si assume a punto di partenza la rivendicazione assoluta del primo momento, il percorso non può che configurarsi come parabola di ridimensionamento : progressivo rientro all’interno di ranghi di minor pretesa, dunque, e inserimento stabile nell’articolata compagine del potere pontificio.
Permarrà comunque l’idea di un Senato detentore di somma autorità se, come ricorda Ugo Petronio75, a pochi decenni di distanza, Iacopone da Todi farà esclamare alla folla chiamata a pronunciarsi sulla condanna di Cristo : “Crucifige … homo che se fa rege … contradice al Senato”, in una parafrasi del testo di Giovanni “chi si fa re contraddice a Cesare”, che assai significativamente — e certo non per sole ragioni metriche — vede il Senato sostituito a Cesare nella posizione della più alta autorità civile.