[p. 383] La diplomatica comunale in Italia dal saggio del Torelli ai nostri giorni
Nel 1911 Pietro Torelli, giovane funzionario dell’Archivio di Stato di Mantova, pubblicava la prima parte degli Studi e ricerche di diplomatica comunale, cui seguiva, a distanza di quattro anni la seconda1. Sarà per l’ambito locale dell’edizione, sarà, meglio, perché il secondo studio vedeva la luce nel pieno della bufera bellica, i due saggi non trovarono alcuna eco nel mondo degli studiosi2, sia tra gli storici del diritto, sia tra i paleografi e diplomatisti ; ma forse, e credo sia l’ipotesi più corretta, soprattutto alla luce della scarsa fortuna che studi analoghi ebbero nei decenni seguenti, i tempi erano prematuri : appiattiti sulle conclusioni dei diplomatisti tedeschi (Steinacker, Redlich, lo stesso Bresslau), dai quali il Torelli non era poi tanto lontano, pur giudicando aprioristiche le soluzioni proposte da chi considerava pubblici solo gli atti emanati da un’autorità sovrana mentre il documento comunale pareva assimilabile, non senza buone ragioni, al documento privato, quelli italiani, nessuno escluso3, ignorarono i nuovi percorsi aperti dal Torelli4, preferendo muoversi sui terreni meno scivolosi della diplomatica papale, imperiale e regia, condannando all’isolamento lo studioso mantovano che, infatti, pur libero docente di Paleografia e Diplomatica, venne spostando i propri interessi, [p. 384] sempre indirizzati all’età comunale, verso la storia giuridica5, della quale divenne maestro, fino ad occuparne la prestigiosa cattedra bolognese.
Se però torniamo allo studio dal quale ho preso le mosse, ne avvertiamo subito alcuni limiti metodologici : da una parte la formazione giuridica del suo autore, col ricorso massiccio alle norme statutarie, ne rinchiudeva gli orizzonti entro il terreno istituzionale, limitandone l’indagine ai soli organi produttori della documentazione e trascurando l’esame delle forme della stessa, dall’altra l’esiguità di quelle fonti ne riduceva l’ambito geografico alla sola area padana, per di più a poche città6. Ma il limite maggiore, peraltro avvertito dallo stesso autore7, è il mancato approccio alla documentazione, la sola che può restituirci “tutti i nascosti meccanismi di cui si avvaleva l’opera del rogatario all’interno dell’istituzione comunale”, riducendo con ciò la carica innovativa di un intervento che affermava “l’autonomia di una materia così intimamente legata ad una delle più ardite soluzioni della vita pubblica, politica e sociale qual fu il comune italiano”8. Ne derivò soprattutto un’affermazione apodittica, quasi una costante, passivamente e acriticamente accettata pressoché all’unanimità dalla storiografia, quella cioè che nel secolo XII gli atti comunali “non hanno valore di atti pubblici per ragione dell’autorità che li emana” — risalendo ad epoca molto più tarda, al più maturo secolo seguente, tale concetto —, “bensì in quanto scritti, secondo norme determinate da persone che il potere legittimo ha rivestito della facoltà di emanare atti in forma pubblica : i notai. È questo un fatto che non ha bisogno di prove9”. Subordinatamente, Torelli, proclamando una tesi, largamente condivisibile, che non si [p. 385] può parlare, se non genericamente, almeno per le origini, di una cancelleria comunale, spostava l’attenzione sul rapporto Comune-notaio, ingenerando tuttavia alcuni equivoci destinati a protrarsi nel tempo, ai quali non sfuggono i pochi lavori che al saggio del Torelli si ispirarono, dalla grande opera editoriale di Cesare Manaresi dedicata agli atti del comune di Milano, proseguita in seguito da Maria Franca Baroni10, per giungere, in epoca più recente, ad alcune brevi note della scuola di Beniamino Pagnin11, che derivava forse questi interessi da qualche approccio sporadico alla documentazione pubblica veneziana di Vittorio Lazzarini12, suo maestro nell’Università di Padova. Mi spiego : se è vero che nei suoi primi tempi il Comune italiano ricorse al notaio come qualsiasi privato cittadino e che solo in un secondo momento, differenziato da comune a comune, ebbe notai-funzionari al proprio servizio, peraltro non esclusivo, essendo ben documentata e largamente diffusa la prassi del notaio dipendente comunale che operava anche come libero professionista, occorre procedere con molta cautela su questo terreno, non bastando certo a connotare tale rapporto subordinato o funzionariale né la continuità di servizio, né formule di tipo cancelleresco quali l’amonicio, la iussio o il praeceptum dell’autorità comunale che nella sottoscrizione notarile sostituiscono la tradizionale rogatio. Dubbi in proposito sono già presenti nel saggio “veronese” di Pagnin13, al quale non sfugge invece il rapporto di [p. 386] dipendenza che vengono via via denunciando le qualificazioni di notarius/scriba14 comunis/consulum o potestatis, uno speciale rapporto che tende a manifestare il carattere pubblico del potere che ha emesso l’ordine di redazione, onde si potrebbe anche sostenere che tali qualificazioni esprimano — così è stato scritto recentemente — “l’esigenza di caratterizzare con solennità diverse i momenti dell’azione che il Comune viene svolgendo sul territorio che considera proprio, nei confronti dei cittadini/habitatores, ovvero all’esterno15” ; non diversamente, credo, dal richiamo all’ordine impartito dalle magistrature comunali, espressione non solo della volontà del notaio di caratterizzare l’ambito istituzionale entro il quale opera al momento16, ma anche, e forse di più, dell’organo di governo, affermante con ciò la propria autorità affiancata a quella del notaio, o, meglio, la funzione di autore della [p. 387] documentazione, di Aussteller17 ; nello stessa ottica si collocherebbe l’avverbio nunc, spesso premesso alla qualifica di scriba comunis, a rimarcare cioè la funzione ricoperta in quel momento dal redattore del documento18. È una tematica sfuggente, ambigua e spesso contradditoria, meritevole di approfondimenti a largo raggio, a tappeto, per aree omogenee, senza lasciarci condizionare troppo dai formalismi messi in atto, volta per volta, dai notai, non necessariamente ossequienti ad una prassi omogenea, razionale e regolare che noi cerchiamo, spesso invano, di individuare. Nonostante l’ampia documentazione fornita in proposito da Gian Giacomo Fissore19, il solo riferimento all’ordine emesso dalle magistrature comunali per trarne prove di rapporti di dipendenza o di subordinazione non mi pare sufficiente, soprattutto là dove si rileva una doppia iussio, senza che il redattore del documento si preoccupi di indicare a quale parte in causa è subordinato20 o quando il medesimo notaio redige sentenze consolari richiamando ora la formula precettizia, ora la tradizionale rogatio21 o come nel caso degli atti di alcuni notai, lungamente operanti per conto del Comune, del tutto privi di qualsiasi cenno ad un ruolo dipendente22.
[p. 388] Ma è soprattutto sulla “pubblicità” degli atti emanati dagli organi comunali che si è incentrata l’attenzione degli studiosi, tutti allineati sulle posizioni del Torelli, nonostante che fin dall’apparire della prima parte della sua opera fossero state avanzate alcune perplessità al riguardo23. È emblematico un caso : accertato che gli ufficiali della cancelleria del Senato romano potevano essere scelti al di fuori del notariato di nomina pontificia o imperiale, il che, almeno a Roma, rendeva pubblico il documento “per ragione dell’autorità che lo emana24”, Franco Bartoloni approdava in seguito alla tesi del Torelli25, estendendola fino al secolo XIII inoltrato, là dove sosteneva, a proposito di un trattato intercomunale, che “la prassi del tempo esigeva che documenti del genere emanati dai comuni fossero redatti da pubblici notai26”.
E qui avanzo subito una domanda provocatoria, un dubbio che si coglie qua e là27, mai reso esplicito ma pur sempre aleggiante : a chi poteva rivolgersi il giovane comune italiano, non dico per rivestire di forme legali le proprie deliberazioni, ma almeno per redigerle in forme corrette se non al notaio o — è il caso di Venezia — a un ecclesiastico ? Il ricorso delle autorità comunali al notaio, così come faceva qualsiasi cittadino, non ci autorizza però ad equiparare il Comune ad una qualsiasi associazione di cittadini, priva di autorità : non vi facevano ricorso anche vescovi, abati, signori feudali, cui non mancava certo la coscienza di detenere, in maniera legittima, un’auctoritas28 ? E che dire dei molti notai cittadini, sulla cui nomina e conseguente legittimità dei loro atti, almeno prima del secolo XIII, non abbiamo notizie [p. 389] certe29 ? Ma il punto più scoperto della tesi di Torelli, rimasto sospeso per il mancato approccio alla documentazione, sta proprio in quelle “norme determinate”, cioè le forme, cui egli accenna come ad uno dei due elementi caratterizzanti l’atto pubblico, l’altro essendo rappresentato dalla qualificazione del redattore. È il tema al quale la più recente generazione di studiosi cerca di dare una risposta, pur essendo già chiaro che essa non potrà essere univoca, trattandosi di una documentazione corrispondente a situazioni particolari, di una costruzione lenta ed altalenante, che alterna avanzamenti, talvolta precocissimi, come a Genova, a bruschi ritorni, modernità ad arcaismi, condizionata dal maggiore o minor “peso politico” dei Comuni, difficilmente riducibile ad un quadro unitario30.
Riprendiamo allora il nostro cammino e veniamo al secondo dopoguerra quando cominciano a manifestarsi i primi, sia pur timidi, approcci al documento comunale : nel 1951, tracciando un bilancio degli studi di paleografia e diplomatica e delle prospettive future, Franco Bartoloni, reduce dagli studi sul Senato romano31, ne additava l’importanza “a chi consideri la funzione esercitata dalle città e dai comuni nel nostro medioevo32”, messaggio per il momento inascoltato. La vera svolta si ebbe però pochi anni dopo con Giorgio Costamagna, i cui studi sulle forme di convalidazione del documento [p. 390] co-munale genovese33 aprivano un varco nella rocciosa costruzione del Torelli, il quale però, pur lasciandole fuori dal suo quadro, aveva ammesso la precocità di sviluppo degli istituti comunali di tutte le grandi città marittime34 : il ricorso, pressoché esclusivo35, a Genova e in Liguria, nel secolo XII, cioè nella fase costituente del comune italiano, per convalidare accordi o convenzioni tra comuni o con potentati stranieri, alla carta partita o al sigillo36, talvolta ad entrambi i sistemi37, cui si aggiunge, in pochi casi38, [p. 391] la sottoscrizione notarile, colpendo duramente la tesi di fondo del Torelli, apriva la strada ad una più matura valutazione delle forme del documento comunale. Caso mai si potrà osservare che questa varietà di elementi convalidanti, questo “accumulo o osmosi di forme e formalismi di garanzia”, secondo una felice espressione di Giovanna Nicolaj39, si colloca tra avanzamenti audaci e più prudenti ritirate, tracce delle quali emergono, ancora nel secolo XIII, attraverso investiture podestarili per baculum, cyrothecas, cirotecham sive guantum40. È pur vero che per Genova si potrebbe sostenere, alla luce di recenti ricerche di Antonella Rovere41, che la quasi totalità dei notai di questo periodo, che si qualificano esclusivamente come notarius, senz’altra specificazione, era priva di una legittimazione superiore. E tuttavia, a parte la carta partita, il ricorso generalizzato al sigillo o alla bolla plumbea, in un caso (1227) addirittura aurea42, simboli di sovrana autorità, della cui esistenza a Genova abbiamo tracce già nel 113843, va nella direzione opposta a quella [p. 392] tracciata dal Torelli, nel riconoscimento cioè del potere convalidante di uno strumento del tutto svincolato dalla pratica notarile44. Né vale osservare che esso è usato largamente per convenzioni tra Genova e città franco-provenzali, dove tale pratica era sicuramente più estesa, perché la documentazione genovese ne ricorda fre-quentemente l’uso presso altre realtà comunali italiane : così apprendiamo dell’esistenza di sigilli dei comuni di Pavia (1140, 1144), Piacenza (1154), Lucca (1170), Alessandria (1192), Tortona, (1197, 1200, 1232), Albenga, Diano, Portomaurizio, Sanremo (tutti del 1199), Noli e Savona (1202), Ancona (1208, 1218, 1220), Ventimiglia (1218, 1222)45 ; per non parlare di Venezia, dove la bolla plumbea, introdotta col doge Pietro Polani, [p. 393] si colloca in un momento significativo della costituzione comunale veneziana46 ; né vale a ridurne la carica innovativa la prevalente utilizzazione in ambito epistolare : non mancano infatti esempi della sua applicazione, oltreché ai trattati di cui si è detto, anche agli instrumenta47.
Quanto ai diversi signa studiati dal Costamagna48, il cui potere convalidante era comunque limitato allo stretto ambito genovese, fermo restando che essi caratterizzavano le diverse strutture entro le quali venne articolandosi, soprattutto a partire dal secolo XIII49 inoltrato, la “cancelleria”, sostituendosi al consueto signum notarile, essi dimostrano un preciso disegno dell’autorità comunale finalizzato ad esaltare la propria autonomia a danno di quella notarile : [p. 394] verso l’esterno ricorrendo a forme di convalidazione quali la carta partita, la bolla o il sigillo, verso l’interno sia con questi signa, sia introducendo, nel 1125, i publici testes, ai quali competeva il controllo formale dei più importanti atti scritti del Comune quali i lodi consolari : non a caso le loro firme autografe venivano apposte dopo la sottoscrizione notarile50. L’impressione che se ne ricava per la redazione del documento comunale genovese, almeno per il secolo XII, è quella di un forte condizionamento della pratica notarile perseguito dal Comune o, se si vuole, di un suo ben individuato coinvolgimento anche in campo documentario51.
Ma c’è di più : in contrapposizione al Torelli, che collocava la prima formazione delle scritture d’ufficio, degli acta, solo nei primi decenni del Duecento52, per Genova se ne poteva anticipare l’origine al secolo precedente ; non sfuggiva infatti al Costamagna l’importanza dei riferimenti, buona messe dei quali trasmessi dai libri iurium, ai cartulari o libri consulatus o potestarie, ai cartulari o manuali autentici e originali comunis o iteragentium53 la cui prima testimonianza risale al 115954 ; né ce ne meravigliamo se [p. 395] l’annalista Caffaro segnalava che nel 1122, in coincidenza con l’istituzione del consolato annuale, clavarii scribanique, cancellarius pro utilitate rei publice primitus ordinati fuerunt55 o, ancora, se proprio agli anni Quaranta dello [p. 396] stesso secolo risale la redazione del primo liber iurium genovese56. Situazione non molto diversa a Pisa, dove gli studi di Ottavio Banti — ma qualcosa del genere era avvertibile già in un saggio di Mario Luzzatto57 — indicano le tracce, a partire dalla metà del secolo XII, di una prima, modesta organizzazione amministrativo-cancelleresca, affidata a scribi, definiti pubblici quasi a sottolinearne il rapporto continuativo di dipendenza dal Comune, ai quali era devoluta l’intera documentazione comunale che traeva validità e veracità proprio da questo rapporto di subordinazione58.
Risultati analoghi mi consentiva l’esame dei cartulari notarili savonesi, compresi tra l’ultimo ventennio del secolo XII ed il primo del seguente59, due dei quali di natura giudiziaria, come aveva segnalato Robert Henri Bautier fin dal 194860, tutti riconosciuti come libri comunis già dai contemporanei. Si veniva così delinendo il quadro di una piccola scribania, ne riaffioravano i nomi dei titolari, Arnaldo Cumano e Giovanni di Donato, suo immediato successore, al quale, nel 1182, era commessa possessionem…tam de scribania quam registris per clavem scrinii quo scripta et registra comunis Saone in duana tenebantur61 ; emergevano le prime testimonianze di versamenti [p. 397] archivistici62, a dimostrazione dell’importanza che il giovane comune savonese attribuiva alla conservazione della propria documentazione, elemento non trascurabile per una corretta valutazione dell’organizzazione burocratica del Comune.
Gli anni Sessanta, ai quali risalgono questi lavori genovesi e liguri, erano però segnati dall’impressione suscitata dalla conferenza di Heinrich Fichtenau all’École des Chartes63 e dalla contemporanea pubblicazione della leçon d’ouverture di Robert Henri Bautier64, ai quali si ispirarono, a distanza di un decennio l’uno dall’altro, i saggi di Armando Petrucci e di Alessandro Pratesi65. Nella sua aspirazione al rinnovamento che lo avrebbe condotto a individuare e seguire nuovi indirizzi in campo paleografico, Petrucci si dimostrava sensibile a quella “crise intérieure dans la diplomatique” denunciata dallo studioso austriaco : puntando l’attenzione sui pericoli di esaurimento della disciplina che ne derivavano, egli proponeva come novità assoluta66 l’assunto che “Il faut que nous arrivions à voir les documents comme les hommes du Moyen Age”67 ; qualcosa di analogo, sia pur limitato alla sola mentalità del notaio, era già stato espresso, dieci anni prima, dal De Vergottini in un saggio senese68, nel quale lo storico del diritto, pur nell’ottica giuridica [p. 398] che gli era propria, aveva applicato un metodo diplomatistico che avrebbe trovato tardi epigoni solo dopo qualche decennio, con esiti tali da dissipare gran parte dei dubbi sollevati da Pratesi sul pericolo dell’accostamento al documento “con finalità che non sono più diplomatiche” e che di conseguenza al metodo diplomatico possano subentrare, con le relative istanze, quelli storico, sociologico, giuridico etc.69.
In questa sede tuttavia mi preme di più fermare l’attenzione sull’ampliamento degli orizzonti, temporali e spaziali propugnato dal Bautier, non senza sottacere — con una punta di rimpianto dovuto all’età — la suggestione che ne provai allora e gli interminabili colloquii sul tema con Giorgio Costamagna. Si trattava però anche di ridisegnare e meglio definire i confini di una disciplina come la nostra — non certo in crisi e concordo quindi col giudizio di Pratesi —, che pareva assediata idealmente da una parte dalla storia giuridica, dall’altra dall’archivistica. Non a caso, proprio negli stessi anni, un giurista italiano sosteneva che la diplomatica “va intesa come una branca della storia del diritto70”, mentre il Pratesi71 avvicinerà l’opera del Torelli alla storia delle istituzioni, magari — a torto a mio modesto parere72 — con qualche contaminazione da parte di quella che Cencetti73 definiva Archivistica speciale ; timore, quest’ultimo, ripreso dal Petrucci74, anche se ombre del genere non sembrano avvertibili nello scritto del Bautier75, che riparte [p. 399] dall’analisi delle forme, estendendone la portata fino ad investire, più che il documento singolo, considerato come “pièce d’un ensemble, un élément d’un fonds76”, l’intero processo di documentazione, il cui studio mi appare fondamentale ove si tratti di cancellerie minori, di quelle comunali nella fattispecie.
Ancora, in quegli anni Pratesi veniva tratteggiando i contorni di un documento “semipubblico” che, al primo apparire del suo manuale77, provocò — almeno in chi vi parla — non poche perplessità e riserve, convinto come sono che si debbano considerare pubblici gli atti emanati da autorità munite di giurisdizione, beninteso senza trascurare né l’aspetto formale verso il quale è indirizzato il discorso pratesiano, né la considerazione di cui essi godevano presso i contemporanei (tesi Fichtenau) — e qui richiamo alcune pertinenti considerazioni sull’argomento della Rovere su fonti genovesi78 — né il processo di formazione di nuove forme documentarie (tesi Bautier) scandito da fasi altalenanti, da avanzamenti e ripiegamenti cui accennavo all’inizio.
A questo punto, prima di delineare i diversi filoni di ricerca entro i quali si sviluppano oggi gli studi di diplomatica comunale italiana, devo premettere le convinzioni che ne ho tratto. Già da quanto esposto finora credo siano emersi tutti i miei dubbi sulle conclusioni della dottrina tradizionale a proposito del rapporto notaio-comune : l’applicazione generalizzata dei principi — in questo caso il potere legittimante e convalidatorio del notaio — a tutte le nuove realtà politiche dei secoli XI e XII mal si concilia con l’interazione o col confronto che si viene aprendo tra esse e la cultura notarile che, in quanto sensibile alla scienza del diritto “era la sola, con quella dei giudici e dei giuristi, che potesse garantire alla dinamica società urbana ed al suo apparato di governo una gamma di prestazioni differenziate e, in considerazione [p. 400] dei tempi, altamente specializzate79”. Ma ciò non legittima affatto l’opinione che il governo comunale, fin dalla sua costituzione, abbia recepito passivamente tale apporto80. Non c’è solo la precocità del caso genovese, dove l’intervento del Comune va ben oltre l’introduzione di nuovi strumenti di convalidazione per investire l’ambito più delicato ed esclusivo del processo di documentazione notarile, attribuendosi, fin dal secolo XII, il controllo sulla redazione delle copie autentiche e sull’estrazione in mundum da cartulari di notai defunti o impediti81, anticipando così non solo una soluzione che verrà consolidandosi nel secolo seguente82, ma anche la stessa dottrina culminata nella Summa rolandiniana. A ben guardare le forme della documentazione comunale, pur in tutte le sue specificità che la rendono, analogamente a quella privata, difficilmente ricomponibile in una visione d’insieme, potremo cogliervi sintomi di un’elaborazione graduale di nuove formule, “di un sistema di scritture conformi alla prassi comunale83, alla quale non era certo estranea una volontà superiore : sarà quella cultura della prassi — così efficacemente richiamata, in tutt’altro contesto, da Giovanna Nicolaj — “che avrebbe rappresentato una mediazione enorme e una importante [p. 401] interpretazione di norme e interessi84”, che avrebbe prodotto una grande rivoluzione documentaria, attraverso scritture per atti e per registri di amministrazione, “strumenti essenziali di legittimazione e di controllo, come avevano sostenuto gli interpreti della legge85 che alla documentazione degli uffici pubblici avevano riconosciuto, come prescritto da Giustiniano, una ineccepibile capacità probatoria86” ; quegli acta publica che, in quanto depositati in archivi posti sotto il controllo delle magistrature, non godevano affatto “di una valenza giuridica e pubblica assai ridotta”, come sostenuto da Attilio Bartoli Langeli87, in genere sensibile a tali scritture e alle loro serie archivistiche88, se da essi si traevano regolarmente copie autentiche89 e se tali registri riferivano — come del resto i cartulari notarili a Genova almeno fino ai primi anni del Quattrocento — nell’intestazione tutti gli elementi per una loro “riconoscibilità pubblica”, spesso garantita dalla sottoscrizione di un notaio, accompagnata dal signum professionale o da uno dei tanti dell’amministrazione genovese90, se, infine, il concetto di originalità si sposta dall’instrumentum sciolto al registro che lo contiene91 e conseguentemente alla serie che lo comprende, con effetto trascinatorio per gli stessi cartulari notarili che vengono progressivamente recepiti come originali dai contemporanei e, ancorché timidamente, dalla stessa dottrina92. Il risultato rilevante “è la [p. 402] formazione di una coscienza nuova del documento : non più legato esclusivamente all’attestazione di un negozio o di un fatto giuridico, ma esteso a tutti quegli atti, anche se puramente amministrativi, capaci di assumere comunque una rilevanza giuridica93”. Non sarebbero quindi solo le “scritture elementari” (s’intendano gli instrumenta sciolti) a costituire gli iura del Comune, come vorrebbe Bartoli Langeli94. Caso mai occorrerà approfondire la differenziazione, nel tempo e nello spazio, delle nuove tipologie documentali, con particolare attenzione a possibili reciproche influenze tra comuni limitrofi o alla circolazione di podestà e notai forestieri95, prima di proclamarne l’irriducibilità al discorso formalistico e classificatorio della diplomatica96.
In sostanza : in un primo tempo il Comune per la scritturazione dei propri atti deve ricorrere ad esperti, ai quali chiede i necessari adattamenti formali per affermare, all’interno e all’esterno, la propria autorità ; i notai sono così costretti ad acrobatici e sofisticati adattamenti ed elaborazioni per trasmettere, attraverso appositi schemi formali, la rappresentazione del nuovo quadro politico-istituzionale. Tali sforzi non possono che prendere le mosse ora da modelli offerti dalla documentazione pubblica o, meglio, di matrice cancelleresca97, non diversamente da analoghe esperienze maturate in ambito ecclesiastico : ne sono esempi quel decreto podestarile bolognese del 1178 strutturato, anche se probabilmente con finalità puramente esornative98, su un [p. 403] diploma imperiale, o il trattato tra Genova e Pisa del 1149, in cui le lettere allungate dell’invocatio, la disposizione e i caratteri della scrittura, i segni abbreviativi a cappio rinviano a coevi modelli cancellereschi imperiali99 ; ora facendo ricorso ai formulari collaudati del documento privato o notarile, alla duttilità dell’instrumentum, prima timidamente e impercettibilmente, poi sempre più esplicitamente rielaborato, modificato e piegato alle esigenze della società comunale e dei suoi magistrati, contribuendo attivamente, “con questo lavorio dal di dentro all’elaborazione, costruzione e legittimazione ideologica del nuovo potere100”.
A quest’ultima modalità, al lento lavorio di trasformazione dall’interno, indagando lo sviluppo parallelo delle strutture politiche e documentarie, pur entro il quadro istituzionale del rapporto dialettico comune-notariato, incontro-scontro di due autonomie, si ispirano i lavori di Fissore che caratterizzano i nostri studi a partire dagli anni Settanta : attraverso una puntuale analisi formale e testuale — quell’anatomizzazione propugnata dal De Vergottini nel lontano studio senese già ricordato — egli tratteggia le diverse fasi di formazione di un documento definito “ibrido o composito”, in quanto “compone le forme provenienti dai due modellibase in un intreccio assai vario di strutture e di esiti particolari101”, punto d’incontro cioè di elementi eterogenei, oscillante tra forme cancelleresche e notarili, superando e risolvendo di fatto quell’ambiguità latente nel concetto di “semipubblico” coniato da Pratesi.
L’incontro delle due anime o, meglio, delle due autonomie, notarile e cancelleresca, si manifesta in genere nelle formule escatocollari, attraverso particolari meccanismi formali, alcuni dei quali riferibili a modelli placitari102, come le presenze speciali a livello testimoniale destinate significativamente [p. 404] — dimostrazione a posteriori della loro specifica valenza — a cedere il posto alla iussio di matrice cancelleresca, finalizzati al coinvolgimento dell’autore dell’azione nel processo documentario, senza ledere l’autonomia del redattore-rogatario, all’unificazione cioè dei momenti dell’actio e della scriptio, sottoposta, quest’ultima, all’intervento “autoritativo del potere comunale che intende dispiegare il suo prestigio e la sua forza nella costituzione di documenti emanati in suo nome”, caricati di significati ideologico-ornamentali, dei quali potrebbe essere spia anche un particolare linguaggio : non un’arenga come in Fissore e Fichtenau103, meglio parlare di formula perorativa, come in Pratesi104 o d’onore come in Bartoli Langeli105, meritevole di indagini allargate ben oltre i confini astigiano e perugino106.
Il particolare approccio di Fissore alla documentazione comunale segna una nuova tappa importante e feconda per i nostri studi, costituendo un costante punto di riferimento per quanti vi si sono accostati. Due soprattutto appaiono gli argomenti verso i quali si sono indirizzate le indagini : la rappresentazione del potere e le presenze di testimonianze o sottoscrizioni qualificate, che si innestano sulla struttura di modelli tradizionali, intese a “caratterizzare l’agire di un soggetto pubblico fondato sulla coesione di gruppi prestigiosi e rappresentativi” come nelle ducali veneziane107 o in documenti laziali dove si segnala particolarmente il consenso unanime del popolo acclamante108. Ma è soprattutto sugli accordi bilaterali, trattati, convenzioni, patti intercomunali, sottomissioni, dei quali si desidererebbero edizioni critiche affidabili, [p. 405] magari distribuite territorialmente come i Pacta veneta109, che meglio si è esercitata la critica, cogliendone le ambiguità e le difficoltà di adattamento dei formulari alle mutate e nuove strutture politiche110 o di rendere in limpide forme documentarie momenti diversi (segreto e pubblico) della diplomazia comunale111.
Prima di concludere non posso non ricordare il significato che ha avuto il convegno genovese del 1988 dedicato alla “civiltà comunale”112, sia perché di esso — lo dico con legittimo orgoglio — fui il regista nella mia triplice qualità, in quel momento, di Presidente dell’Associazione Italiana dei paleografi e diplomatisti e della Società Ligure di Storia Patria nonché di Direttore dell’Istituto di civiltà classica, cristiana e medievale dell’Università di Genova, sia perché da esso, grazie alla relazione della Rovere113, ebbe impulso una rinnovata attenzione per i libri iurium dell’Italia comunale, della quale, credo non immodestamente, mi ritengo l’istigatore : le edizioni o riedizioni degli stessi, realizzate o ancora in preparazione114, anche attraverso il [p. 406] corso di dottorato di ricerca in Diplomatica che ha sede presso l’Università di Genova, sono premessa indispensabile per ogni seria indagine sulla documentazione comunale.
A questo punto io mi sento come il direttore di un coro polifonico, non molto grande per la verità, del quale la tirannia del tempo impostomi ha consentito di ricordare, in questa sede, unicamente i solisti, e forse non tutti. Ad uno di essi ricorro per chiudere : se Torelli ha posto il notaio in posizione preminente rispetto al Comune delle origini, io, al contrario, pur senza voler generalizzare l’originalità di situazioni locali rispetto a un quadro normativo sostanzialmente uniforme, ritengo che tale binomio potrebbe anche essere rovesciato in favore di quest’ultimo e che pertanto, in accordo con una felice intuizione di Bartoli Langeli, sia preferibile parlare non di “documenti notarili di pertinenza comunale”, bensì di “documenti comunali di genesi notarile”115, rinviando con ciò al più maturo secolo XIII quel predominio del ceto notarile che verrà occupando, a tutti i livelli, compreso quello politico, ogni spazio disponibile del Comune116. Ma questo è un altro discorso, uno di quelli che, in accordo con Pratesi, potrebbe portarci fuori dal campo proprio della nostra disciplina.