[p. 973] Documento privato e notariato: le origini1
La diplomatica italiana sul documento privato ha puntato e punta preferibilmente, ed è naturale, alle vicende e ai problemi del notariato. In questo ambito di indagini, un posto particolare spetta alla scuola di Bologna, radicata ai solidi temi che le arrivano nientemeno che dai primi maestri e glossatori bolognesi; all’intorno, invece, agli indirizzi tradizionali di ricerca se ne sono aggiunti di nouvi, più squillanti e à la page, che si orientano secondo prospettive di psicologia e di psicologia collettiva, di storia della mentalità, di storia sociale.
Ma alcune forme e formule dei nostri più antichi documenti, note a tutti e torturatissime, continuano a nascondere i loro significati e valori peculiari e a trovarsi costrette percio in interpretazioni vacillanti e non completamente persuasive; e la storia del notariato, di quello delle origini in particolare, continua ad essere appannata e velata, a tratti, rigida, angusta e sommaria, a momenti.
[p. 974] Penso, d’altronde, che il problema del notariato sia solo un corollario di quello del documento. E penso che il problema o i problemi del documento siano in primo luogo quelli delle sue funzioni, sottese alle strutture morfologiche che si informano ad esse: funzioni non genericamente sociali, come spesso si dice ormai da noi, ma specificamente giuridiche, o meglio relative a fatti e a rapporti storici e sociali che si definiscono e si organizzano secondo ordinamenti e pratiche giuridiche.
Un testamento, una vendita, una concessione avranno dietro tante storie, copriranno tante vicende umane e tante situazioni sociali, ma che si calano tutte in un atto giuridico: certo, quell’atto è materia da giuristi, ma è in ragione di esso che il documento — che non è cronaca, ballata o ricordo e appunto personale — esiste ed ha specifiche funzioni; ed è in relazione a tale documento che il notariato assume connotati e profili.
Tutto ciò sembrerebbe banale e scontato; ma noi parliamo ancora sbrigativamente di documenti probatori e di documenti costitutivi o dispositivi, con una distinzione oltretutto spesso insostenibile; di quelle funzioni specifiche non ci occupiamo gran che, convenendo di lasciarle ai giuristi, appunto, e disancoriamo così le nostre forme e formule dai loro significati e dalla loro storia. Mentre, dal canto loro, i giuristi lamentano gli «scarsi risultati» di quella che addirittura chiamano «diplomatica giuridica»2: episodica e praticata da loro, la materia così definita e spezzata, denuncia una mutilazione profonda, a volte soffocante, a volte fuorviante.
Insomma, il punto di partenza è che il documento privato è elemento di primo piano nella storia dei contratti e nella storia del processo. Così come è di primissimo piano, individuata e autonoma nella sua storia, tutta la prassi documentaria, che per sua natura è stata sempre mediatrice fra norma ed esigenze di uomini, è stata interprete, è stata anche produttrice e creatrice di diritto: e tutto ciò con gli strumenti di una cultura sua propria, che non si è limitata a scritture e formulari, [p. 975] a grammatica e tutt’al più a retorica, ma che insieme a ordinamenti e a norma ha elaborato per secoli disegni e lingue nei quali calare i colori e le voci della vita.
La teorica dei quattro istrumenti che risale ad Irnerio, primo dei glossatori e civilisti bolognesi, non è un caso né un principio: la annunciano di lontano una prassi volgare tardoantica, animosa e più forte del diritto emanato dal Principe con i suoi pensosi giuristi; quindi, una pratica altomedievale, spogliata, sola e ultima di fronte al vuoto di una romanità dissoltasi come sistema e di una barbarie pregna di umori e ricca di guerrieri e di popolo ma ignara di individui e di diritti dei singoli; poi, una pratica d’età preirneriana, incarnata da un pugno di uomini — notai, giudici, causidici, doctores —, capace di avventure e di scoperte, incantata da frammenti luccicanti e umile nel maneggiarli con glosse dapprima appena lessicali, e poi sempre più tesa a ricostruire, o a costruire, un sistema intellettuale e materiale, in quella corsa che oggi con un’epigrafe storiografica e atona chiamiamo “rinascimiento giuridico”.
Oltretutto, da quella prassi e dalla sua cultura vengono posti e definiti in lunghissimi tempi, concetti che ci riguardano dappresso, come per esempio il concetto di autenticità: stretto, talvolta, nella tradizione del testo documentario ricostruita da noi con criteri ancora essenzialmente filologici, quel concetto infatti passa da filologico a giuridico in connessione con il tema della fides e perciò in correlazione con la storia della prova.
Un panorama di tante vicende, ridotto in sintetiche conclusioni e ipotesi appena accennate su temi invece carichi di problemi e di fonti, e svolto secondo un’evoluzione forzatamente lineare (che invece è stata fluida e complessa e segnata di cadute, fraintendimenti, ritardi), potrebbe, comunque, essere forse tratteggiato così.
Roma, gli atti giuridici dei suoi cittadini, la scrittura: da una parte, la norma, poderosa e sottile, fedele a se stessa e alla logica dei suoi princìpi originari e perciò ancora e sempre romana, sempre cauta e [p. 976] sapiente, spesso vischiosa; d’altra parte, la pratica, invasiva e spiccia, incollata ai suoi tempi e perciò maculata di novità e di usi locali, provinciali e orientali, ma scaltra di leggi e di tribunali e perciò accorta e flessibile: da un lato, acta principis e responsa prudentium, forti di auctoritas e ieratici di coelestis maiestas, dall’altro chirographa e instrumenta, carichi di interessi e di affari, bisognosi di certezze e speditezze.
In età postclassica, la scrittura in funzione probatoria si è fatta gran largo nell’uso del mondo latino. E la prassi, che ne ha sostenuto la spinta, enuncia e compendia le ragioni di così vasta affermazione definendo la scrittura stessa memoria sempiterna capace di vincere l’oblivio (come dice per esempio P. Tjäder 8); e ottiene, intanto, per le sue cautiones di debito una capacità così spedita e perentoria di prova da far traballare il sistema tradizionale. Ma nella realtà torbida e faticosa delle cose quella scrittura s’accompagna al falso, mentre nei rispetti dell’ordinamento, poco aduso ad essa per le sue stesse leggi e disposizioni, pone il problema della fides.
Nei processi, infatti, e in sede di prova, si propone come fondamentale il motivo complesso della fides probationis: che è complesso perché riguarda sia la fiducia da prestare ai mezzi di prova, sia — a rovescio e nell’accezione causale — la veracità e constantia degli stessi strumenti, e cioè la loro capacità di testimonianza. In questo secondo significato, si parla spesso dal III secolo in poi di fides scripturae, fides instrumentorum; e accanto al problema giuridico della capacità di testimonianza s’avvertono le minacce concrete del falso documentario e del falso ideologico.
Le cose incalzano, e il tema della fides, a partire da Diocleziano e Costantino, si fa man mano più scottante. Per tante e complesse ragioni: per il dilagare della prova scritta e, insieme, per il passaggio ormai concluso di tutta quanta la materia delle prove dalle mani dei retori e degli oratori del I secolo, alla moda greca, a quelle dei giuristi; per i profondi mutamenti che toccano il processo — come il suo aprirsi alla cognitio extra ordinem e ad un accentuato indirizzo inquisitorio o come poi il trasformarsi del giudice da privato in funzionario di Stato; per il maggior impegno assunto dalla prova scritta nell’ambito sostanziale [p. 977] dei contratti, e cioè per il suo accentuato aspetto statico, come direbbe un giurista d’oggi3, che ne rende più incisivo anche il profilo dinamico e cioè processuale.
Certo, se il Costantino di C. 4, 21, 15 è olimpico sul problema della fides — «In exercendis litibus eandem vim obtineant tam fides instrumentorum quam depositiones testium» —, quello di C.Th. 9,19,2, nove anni più tardi, tuona quando dice: «Sed ubi falsi examen inciderit, tunc… acerrima fiat indago argumentis, testibus, scribturarum conlatione allisque vestigiis veritatis.» Perché per i testi tutta la tradizione — da Cicerone ai giuristi classici, al grande Adriano — stabilisce criteri di apprezzamento e indici di capacità; ma il documento è un fattore relativamente nuovo nel sistema, diverso ed eterogeneo e di maggiore portata.
Così, la cancelleria imperiale, tra IV e V secolo, scomoda e snatura per il falso documentario il reato di falso — delitto pubblico contro la fede pubblica — e con una serie di costituzioni rivoluzionarie (C.Th. 9,19,4 = C. 9,22,23; C.Th. 4,4,2 = C. 9,22,24; C.Th. 9,20,1 = C. 9,31,1; C. 2,4,42) pone per la prima volta la fides della scrittura a fronte della fides publica; così il Codice teodosiano e poi quello giustinianeo dedicano titoli specifici alla materia (C.Th. 11,39 e C. 4,21); così, la dottrina imbocca la strada concettuale di una memoria certa perché fornita di fides approbata o data o che perficiatur preventivamente, ad evitare una probatio fidei giudiziale: l’accertamento, però, al fondo resta estrinseco al documento e al suo iter di formazione, perché si risolve in un’impositio fidei che sul documento cala dall’esterno, dai testi ancora e tra essi dal tabellione, ed è atto processuale compiuto davanti al giudice.
Insomma, fino in fondo, la fides del documento privato romano resta altra e distinta dalla publica fides, alla cui ricognizione è invece soggetta nella fase probatoria del processo, nei procedimenti di falso, nella procedura di insinuazione.
D’altra parte, nel mondo romano, problemi di certezza e sicurezza gravano addirittura sulla documentazione pubblica, sugli acta principis: [p. 978] problemi spinosi ma assai importanti e significativi per la storia del concetto di autentico e per la storia della funzione autenticatrice che invece si attribuisce tout court alla sovranità.
Sul documento pubblico, infatti, pesa una spezzatura fra testo spedito e testo compreso nel deposito d’ufficio, nel corpus archivistico di conservazione, e a quest’ultimo resta affidato quel riconoscimento d’autore che è il nocciolo dell’autenticità. Vale a dire che, se anche si spediscono rescritti imperiali «authentica atque originalia» — e il problema degli originali e delle copie in relazione alla spedizione o al deposito è intricatissimo, come sanno bene i romanisti —, se anche si tutelano quei rescritti sempre più imperiosamente — con la formula «rescripsi, recognovi» del II-III secolo, le litterae coelestes del 367 (C.Th. 9,19,3), l’inchiostro di porpora del 470 (C. 1,23,6), la sottoscrizione del questore del Sacro Palazzo del 541 (Nov. 114) — comunque la garanzia di quelle scritture rimane ancorata al fondo di provenienza: resta, insomma, una divaricazione fra originali — gli “authentica atque originalia» di C. 1,23,3 per esempio — e la memoria publica affidata publicis litteris e di certa fides, come dicevano già Cicerone (in de leg. 3,20,46) e Plinio (in epp. 10,65,3 e 10,66,1), alludendo alla custodia d’archivo.
Non parlerei, perciò, di «monopolio statale»4 o di «autoritarismo imperiale»5, quando l’unica strada che conduce «sotto la garanzia della pubblica fede»6 è quella dei fondi d’ufficio en ad essi s’appigliano anche i documenti privati con l’insinuatio: per la documentazione latina, la norma è arrivata a trasferire la publica fides di un cognitor ai monumenta ufficiali di lui nel 414 (C. 7,52,6), la pratica ha individuato in ciò una soluzione a problemi che la riguardano, realizzabile appunto mediante la insinuazione del documento privato negli acta pubblici, la norma accoglie questa soluzione in Nov. 73,7,3, e la pratica, i tabellioni di Roma, che sono al di qua di un [p. 979] officio publicum o civile che sia, stabilizzano quella clausola della licentia allegandi che rafforza al meglio la capacità probatoria dei loro documenti.
Ma i cammini di norma e pratica s’intrecciano anche sul terreno dei contratti: è il punto tormentoso della funzione ad substantiam del documento nel campo delle obbligazioni.
Poiché la validità di queste sta nella loro firmitas, e firmitas è robur, vigor ma anche soliditas, stabilitas, diuturnitas, per questa via quella memoria sempiterna che è il documento sale infatti, man mano e per un lento cammino, dal piano processuale a quello sostanziale. L’uso del documento apre così larghi varchi nel sistema occidentale dei contratti e approda infine a quella conosciutissima costituzione 17 di C. 4,21, che ammette la particolare funzione ad substantiam, ove piaccia ai contraenti, di una scrittura dotata dei dovuti requisiti.
Ma la pratica, che ha rotto organicità e coerenza del sistema antico, non ne tocca però alcuni pilastri di fondo e ne assume anzi la logica formalistica tradizionale: e poiché accanto al problema cristallino e beatamente giuridico delle fonti d’obligazioni pone quello pratico, inquieto d’ombre e aggressivamente vitale, della loro sicurezza, compiutezza ed efficacia definitiva, spinge inesorabilmente ad un accumulo di forme.
Intanto, se il contratto può scomporsi concettualmente in «volontà + causa + forma» e i due primi fattori «non possono moltiplicarsi»7, il terzo invece sì; e il documento in sé diviene una «forma»: e perciò, piuttosto che di documento dispositivo, parlerei di scrittura solemnis, e cioè formale, come fanno le fonti normative e documentarie sul filo di delicati equilibri.
[p. 980] Inoltre, quel documento che è forma può comunque aggiungersi ad altre forme. Ciò vale per il problema del nesso stipulatio / documento, che tanto affanna i giuristi e che tanto ipoteca il significato dei nostri documenti. Un’esegesi delle fonti in questione è impossible ora, ma vorrei dire che a mio parere la stipulatio in età tardoantica non viene snaturata né sopravvive tout court, e che la scrittura non ne è l’equivalente né d’altra parte la semplice prova: questa scrittura in teoria e per norma le si giustappone, per logica ne sostituisce le ragioni, in pratica certo le toglie vita e la mummifica. E a questa interpretazione non s’oppongono fonti difficili e tormentate come la costituzione leoniana di C. 8,37,10 e Inst. 3,15, mentre nello stesso senso convergono i documenti della pratica, che ci tengono tanto ad affermare che si è agito «stipulatione et sponsione sollemniter», che ci sono state una domanda e una risposta «verbis sollemnibus».
Quindi cumulo di forme contrattuali; quindi cumulo e intrecci di aspetti probatori e sostanziali: e tutto confluisce in quel documento invadentissimo e pesantissimo, così complicato di formule e pure così silente di voci e così fermo di gesti.
E qui si tocca un altro punto dolente, quella croce storiografica che è la traditio chartae, piantata da Brunner8 ed eliminata, sembrerebbe, per noi diplomatisti da Schiaparelli9, che ne ha fatto un atto simbolico d’origine religiosa. Anche in questo caso non possiamo soffermarci; ma ritengo che Brunner al nocciolo avesse ragione e che la tesi di Schiaparelli sia insostenibile: quella traditio che è ricordata tanto insistentemente nei documenti — a chiusura del dispositivo, in [p. 981] ogni dichiarazione testimoniale nelle donazioni e infine nella completio del tabellione — risponde certamente a C. 4,2,17, che vuole per le scritture formali due requisiti — le sottoscrizioni di parte e l’absolutio (tre nel caso del documento tabellionale) —, e che quell’absolutio vuole tanto da tornarci su tre volte. Come s’è detto, è un’età che ha ormai l’assillo palpabile della perfezione e dell’efficacia dei contratti — valga per prima e per tutti la dottrina sulle donazioni —: e la pratica, sintonizzandosi con le preoccupazioni della norma, richiama il documento alla tradizione e in un guizzo di formalismo, sentito giustamente nella sua «funzione semplificatrice e chiarificatrice»10, lo sottomette a quell’ultimo, definitivo atto formale e solenne che è la traditio.
E’tutta una trama di delicati equilibri, nella quale si compongono anche tante presunte e lamentate incongruità ed elusioni del Corpus iuris, imputate spesso al tradizionalismo romano e giustinianeo, sbrecciato e vinto da prassi innovative e rivoluzionarie; mentre quel libro, letto insieme ai documenti della pratica, sa di un incredibile sincretismo, a copertura musiva di un mondo ormai scoperto all’Asia e all’Africa, percorso da fantasmi, per un momento ancora dimentico di Vandali e Ostrogoti.
A questo quadro fanno fronte gli uomini della scrittura e della documentazione: tabellioni di Roma e forenses di Ravenna, notai ed ecclesiastici che redigano carte. Non metterei fra loro grossi steccati11: perché nessuno di loro è dotato di funzione pubblica e di un ruolo istituzionale, ma tutti di grinta e di capacità. La situazione è complessa e difficile, il sistema s’è fatto barocco nella chiara cornice primitiva e tutto corre ai limiti della illogicità giuridica, come sperimentano i giuristi quando conservano ottiche dogmatiche o guardano troppo alle limpidezze d’età classica.
E tutto questo va trattato con sapienza e souplesse: così operano [p. 982] norma e pratica, che alle soglie d’un mondo spezzato continuano ad avanzare, poco declamatorie nei principi ma anzi tanto più prudenti quanto più consapevoli delle difficoltà del reale.
Il quadro si dissolve alle invasioni e occupazioni germaniche. Di poi, la realtà si ricompone in pochi tratti ma vigorosi e profondi. Insieme e vicini i romani, che sono dispersi e trattengono gli strumenti superstiti di una civiltà frantumata, e i barbari, che vivono per gruppi e si vincolano giuridicamente per thingatio e wadiatio (e cioè per atti solenni e formali, materiali e simbolici) o per una res praestita (e cioè per obbligazioni reali): i primi eredi di un ordinamento scritto ma perduto, i secondi figli di un ordinamento orale, poi scritto nella lingua dei vinti ma sempre laconico sui diritti dei singoli. In mezzo, la pratica, laboriosa e flessibile nel tradurre assimilare unire, tenace nel colmare i vuoti e nel creare una consuetudine che abbia forza di legge. Fra i pochi strumenti scampati, il documento.
Gli storici del diritto sono ormai sicuri e d’accordo circa la funzione negoziale della charta, e la questione sembra ormai pacifica per loro, anche se non proprio ferma e chiara per la diplomatica. Invece, proprio i documenti della prassi potrebbero sciogliere alcuni duri nodi residui e far parlare le loro formule.
Si potrebbe, per esemplio, periodizzare meglio il cammino della lunga vicenda contrattuale altomedievale (tra un documento longobardo e un documento dell’XI secolo, o tra l’Editto longobardo e l’Expositio corrono lente fasi d’assestamento). O si potrebbero allentare i lacci logici, che noi poniamo, fra stipulatio e charta o wadiatio e charta: la stipulatio resta a sé, ora incompresa ma suggestiva nella sua formula; anche la wadiatio resta a sé, compresa e usata ma legata alle pratiche originarie e distintive di uno solo dei due popoli; il documento invece — elaborato da Roma in funzioni sfumate composite e complesse e perciò non troppo nettamente tipiche e avvicinato dal popolo straniero per la superiorità della sua scrittura e per la sua comprensibile materialità —, quel documento ha per sé il futuro.
E’ arrivato in un pulviscolo di forme e formule — a Lucca, Pavia, Piacenza, Pisa e altrove —, è mal padroneggiato da chi s’affanna, scrivendolo, a definirne in qualche modo le funzioni — «per scripto [p. 983] fermari», «pro munimine», «pro confermatione» insistono le carte, parlando troppo e troppo poco —; ma in qualche modo è sentito come necessario, lentamente assume caratteri e strutture uniformi e sale a titolo, che definisce quegli iura sui quali la norma tace, formalizza un’obbligazione comune a vincitori e vinti, incorpora il diritto: e dalla metà del secolo VIII, alle soglie di quel Medioevo che dice Pirenne12, si stabilizza nelle formule «per chartam vendo», «per chartam iudico» e così via, che indicano la normalizzazione di un comune sistema contrattuale.
Si potrebbe poi storicizzare il problema della traditio chartae. Anch’essa arriva a spezzoni e solo in seconda battuta s’allarga nell’uso e si stabilizza: forse non perfeziona l’obbligazione, com’era stato per Roma raffinata e sottile; ma certo la sigilla, con un atto formale e materiale.
E si potrebbe storicizzarla quanto a una sua funzione traslativa, che a Roma non aveva svolto: perché, per quel che dicono i documenti, in età longobarda costituzione dell’obbligazione e transferimento reale coincidono; poi, in età franca l’importazione del rito salico, formalmente concluso con la traditio di un simbolo, sembra introdurre in Italia atti distintamente traslativi o riaccendere il ricordo di atti romani autonomi per il trasferimento delle cose, gli uni e gli altri che si calano nelle forme della notitia investiture o traditionis e che, infine, suggeriscono di allargare e di precisare anche nella charta longobarda la formula tradizionale di una consegna «in integrum, ad proprium et finitum… ad habendum, tenendum et possidendum» con l’aggiunta di una traditio ad proprium fatta per chartam.
Infine, al fulcro della charta appoggerei il tema della convenientia, così assillante per i giuristi e, d’altro canto, così interessante da commisurare su quel valore della chartula altomedievale che si diceva sopra. Nell’offuscamento delle categorie contrattuali romane, [p. 984] pochi tipi di contratto sembrano galleggiare in qualche modo riconoscibili: la vendita, le donazioni e poco più. Altri, come la permuta o le locazioni, in mancanza di un quadro sistematico di riferimento, si presentano con connotati sfumati e sfuggenti, il cui elemento più chiaro è quello convenzionale, che poi rinvia ai nostri formulari del tipo «placuit atque convenit» e a una nostra documentazione che si fa generalmente in due carte «pari tinore». I giuristi s’interrogano intorno ad un eventuale contratto di convenientia, che si perfezioni per convenientiam: ma non si potrebbe pensare invece alla convenientia come a una larga e approssimativa causa giuridica che si formalizzi e perfezioni per chartulam, per quella charta che in età franca ha già una stabile funzione contrattuale? In quell’età nella quale la concretezza del formulario colma la dissolvenza delle astrattezze logiche?
Quel che il documento romano guadagna sul terreno contrattuale, lasciato dai barbari all’iniziativa dei vinti, perde invece sul terreno processuale, dominato dai conquistatori e dai loro re-giudici. Quella charta, infatti, che è già titolo, come prova se la batte all’interno di una procedura germanica e nell’arena di quel sistema di prove «irrazionali» che Lévy chiama «religiose o soprannaturali»13: giuramenti, ordalie, pugna. Potremmo approfondire e distinguere fra i colori di Rotari e quelli di Liutprando o Ratchis, fra quelli dei carolingi o di Guido toccati di romanità e quelli degli Ottoni timbrati di germanesimo; ma i documenti, nel processo, come titolo se la contendono con il possesso ancora a Marturi nel 1076, come prova vengono rintuzzati dalla pugna ancora a Garfagnolo nel 1098.
Perciò non parlerei per la carta di prova «privilegiata»14 o di prova [p. 985] «legale» o «formale»15, come si fa, ma piuttosto di prova «globale»16; posta all’interno di un sistema arcaico e lambita essa stessa d’irrazionale, la carta è dimostrazione di fatto e di diritto in blocco, et è decisiva, non istruttoria, del giudizio. E in tale contesto ha poco gioco il concetto d’autentico; anzi la lite si polarizza intorno al più pregnante concetto di falso, opposto alla carta «vera et bona»: perché la carta falsa è quella non veritiera, ma anche non valida all’obbligazione e «contra legem»; mentre si dissolve nel profondo il concetto razioale e logico-giuridico di fides.
In questa prospettiva, forse non è corretta l’antitesi che si pone da sempre fra charta e notitia o breve e fra i loro rispettivi pesi probatori. Guarderei piuttosto ai contenuti, agli atti documentati, e insieme al peso quasi di canone (stilistico) esercitato dai formulari romani e neoromani su quegli uomini del medioevo. Vale a dire che l’ipotesi è che mentre vendite o convenientie, contratti romani anche se segnati di germanesimo perché magari fermati con wadia o per thingatio, vengono riconosciuti nelle tipologie delle cartule giustinianee, wadiationes longobarde pure, invece, o investiture saliche oppure atti giuridici non contrattuali come le divisiones vengono più facilmente calati in una forma documentaria all’origine meno tipizzata e di modello non peculiare.
Nella stessa prospettiva, anche la problematica sull’ostensio chartae forse va impostata diversamente; forse i termini consueti di essa — da un lato la tesi di chi pensa a una reminiscenza dell’insinuatio romana e comunque a un’esibizione del documento al placito perché ne venga autenticato17, dall’altro la tesi di chi sostiene la realtà di vertenze e processi18 —, forse, non sono del tutto calzanti.
A considerare, infatti, che il concetto di autenticità non ha in quei [p. 986] processi il valore né la rilevanza che noi gli diamo; a considerare che la procedura di ostensio si delinea sul finire del secolo IX, in tempi cioè di gravi incertezze politiche e sociali, e s’incrementa in età ottoniana, quando, se si arriva al processo, alle scriptiones in genere si responde con la pugna (Otto I 1), e che alla stessa procedura sembrano sottoporsi documenti privati ma anche sovrani; a considerare che in molti casi compare al placito la sola parte che esibisce il documento e negli altri casi la seconda parte è constituita dagli autori giuridici, o dai loro eredi o successori, o da eventuali terzi interessati, penserei che non raramente l’ostensio sia in realtà un atto d’accertamento compiuto di fronte a un tribunale che lo sancisce: non una lite all’origine, dunque, né una ricerca di autenticazione al fine; ma un accertamento di iura, che si risolve naturalmente nel riconoscimento della documentazione che li configura.
In un quadro così, mentre nel mare del naufragio di Roma si solidificano lentamente le lave possenti del Nord, pare inveromile la questione di un officium publicum notarile: è già molto se uomini sparsi ricordano tenacemente e danno forme a quelle lave, e se qualche carolingio, forse anche sognando di romanità a «cornice» del suo impero19, tenta di indirizzare i cammini del notariato e organizzarne le fila con un pugno di norme (per es. Cap. missorum a. 803, o Hloth. 12, 13, 71, 72, 102) idealmente non lontane dalla Nov. 44 di Giustiniano.
Qualcosa di nuovo, invece, s’avvia al finire del primo millennio, con gli imperatori sassoni e la loro nuova idea d’Impero. Prende quota, infatti, quella scuola di Palazzo che prepara giudici e notai per il Regnum e che sistemerà il patrimonio giuridico dell’età romanobarbarica con il Liber Papiensis, le Formulae, l’Expositio, il Chartularium. E compaiono e s’infittiscono i giudici-notai, o notai-giudici, non importa: la cosa non è rilevante perché non credo che il notaio, [p. 987] per il fatto di essere anche giudice, accresca la «credibilità»20 della carta — che è ancora e sempre avvalorata dai testi, tra i quali, certo, anche il notaio —; così come non credo che si possa parlare di carriere.
I punti importanti, invece, sono due: che per la prima volta nella sua storia, quel notaio che è anche giudice si ritrova ad essere perciò titolare di un ministerium, questo sì, pubblico, e la cosa avrà echi lontani; e che quei giudici e quei notai di cercata competenza tecnica sono la prima ondata del ceto degli uomini di legge o dei giuristi, come è stato definito21. Un ceto che s’arricchirà di causidici e doctores, sarà composito ma compatto fino a Irnerio e si spargerà per il Regnum.
Si sparge, infatti, per il Regno, perché accanto ai giuristi palatini si pongono ben presto tecnici ed esperti di formazione locale, toscana per esempio, o ravennate.
E’ composito e compatto, perché — a seguire biografie e aggregazioni di quegli uomini, coi loro vari titoli, sulle sottoscrizioni autografe a placiti e a documenti privati — ci si convince che se si parla di categorie e di carriere, di profili istituzionali e di ambiti giurisdizionali stretti, o se si disegnano istituzioni scolastiche prima del XII secolo, si va fuori strada: l’unico punto che sentirei di tener fermo è che nell’XI secolo giudici e notai che s’intitolano (e quando si intitolano) al Sacro Palazzo hanno studiato a Corte e si fregiano del nome della scuola come della Eton dei tempi, mentre giudici e notai che non s’intitolano affatto (il che è molto significativo) o s’intitolano domni regis o imperatoris hanno una formazione locale e tutt’al più nella loro qualifica richiamano la nomina.
Quel che invece è un dato di fondo, strutturale e coagulante, è la cultura del ceto: una cultura tutta legata alla prassi, e perciò mirata alla renovatio di un impero, all’esercizio di un potere marchionale, [p. 988] all’emersione di forze nuove nello sfaldarsi dell’ordinamento carolingio — vescovi, conti, città — o alla considerazione dei possibili rapporti economico-giuridici fra i singoli e della loro tutela. E ciò secondo due linee di tendenza: quella alla circolazione più agile che si possa immaginare di uomini e di patrimoni tecnici, e quella alla progressiva coesione di operatori liberi ma uniti da una cultura sempre più vivida e in un’avventura di grandissimo volo.
Con questo non voglio dire di un panorama uniforme e indistinto. Yntanto, i personaggi di punta sono pochi, una piccola brigata d’avanguardia. Poi, sullo sfondo di quella cultura che si rinnova e potenzia, che da ars si fa scientia e perciò si fa anche sperimentale, i giuristi palatini rivolti a una scienza longobardistica sono complessivamente staccati dagli altri, i quali, meno legati a tradizione e immagine, sono più aperti e disposti a riscoperte e ammodernamenti; tanto che non sembra casuale che svolte importanti o definitive per la cultura giuridica trovino stanza in ambienti non dominati dai legisti di Palazzo, per esempio ad Arezzo, come sto studiando22 o a Bologna. E infine, ma sempre morbidamente, un iniziale ruolo trainante potrebbe riconoscersi all’anima notarile del ceto, da sempre moderna e rivolta alla prassi, tant’è che l’ipotesi di Giorgio Cencetti sulle origini in parte notarili dell’Università medievale23 non è affatto stravagante, magari allargata a una realtà più vasta e frastagliata di quella bolognese, almeno fino a Irnerio.
Proprio dai notai, invero, dai loro documenti che significativamente mutano nella struttura e nelle formule, dalle loro arenghe meditate e talvolta didascaliche viene una nuova riflessione sui contratti e sulla prova di essi: a Ravenna si ricomincia a capire la stipulatio come contratto formale e la fides come elemento della prova; a Ravenna e a Roma si recupera la traditio corporalis come atto di trasferimento di beni; in Toscana, finalmente, si riconquista la distinzione [p. 989] concettuale fra funzione negoziale e funzione probatoria della documentazione. E questo mentre, da un lato, riafforano un po’ ovunque le categorie contrattuali romane così come sono definite dalle leges e non dalle chartule; e mentre, d’altro lato, dalla tipologia dei placiti romani e ravennati sembra sia sollecitata e si diffonda una procedura processuale romanica a più ampio indirizzo istruttorio e perciò a nuovo interesse anche per la materia delle prove.
Una battuta prima della civilistica bolognese in materia di contratti e della canonistica in materia di prove, la scienza notarile, infatti, fra XI e XII secolo, separa nella scrittura una funzione che firmat, perficit, confirmat il negozio da una funzione che exibet, demonstrat il fatto o la res gesta come dicono; e mentre, d’un canto, recupera i varia nomina contractuum, i diversorum genera negotiorum, riaccende, dall’altro, il motivo di una memoria che supera l’oblivio e che è optimum testimonium: e individua così un approdo per sé.
Perché la testimonianza (testimonium), così segnatamente e autonomamente ritrovata per la scrittura, è un officium, come dichiara un fascinoso notaio toscano nel 1089, anzi un officium publicum come dicono la Summa Trecensis (4,20) e quella di Rogerio (4,21). E questo fondamentale passaggio logico è l’anello per quella «soluzione» che diceva Cencetti24: perché, se la capacità probatoria dei testi sta nell’auctoritas fondata sulla loro presenza e viva voce, quella della testimonianza resa dal documento può farsi stare nel notaio che ne è da secoli autore e attraverso il quale quel publicum officium viene esercitato.
D’altra parte, per effetto dell’amalgama romano-barbarico degli ordinamenti e nell’universo feudale, il concetto di officium equivale ormai in primo luogo a quello di ministerium, come evidenziano anche i vocabolari dei tempi, per esempio quello di Papia o quello poi di Alberico da Rosciate. E la confluenza di officium e ministerium [p. 990] configura una funzione sia d’interesse pubblico sia al servizio dell’autorità e del potere pubblico, che può farsi perciò assumere ad una sovranità che va definendo se stessa e le sue attribuzioni nella lotta con la Chiesa universale e poi con le autonomie cittadine: naturalmente, l’interesse tipico di questa funzione consisterà nella publica fides volta e attribuita alle scritture dei privati. Così, il notariato — «ut est mos notariorum et vassallorum» — per fedeltà a se stesso e a ciò che attesta, giura fedeltà al Principe.
Ma la volata conclusiva di questa staffetta secolare, corsa in libertà da intelletto e fantasia, finisce ormai nelle maglie della ragione: perché ormai, a quel traguardo che è l’avvio dell’istituzione, un’altra storia chiede alle legittimazioni del Regno e della Chiesa e alle argomentazioni dei professori dello Studio, come direbbe un poeta, «lineamenti fissi, volti plausibili o possessi»25.