[p. 1297] I Vicedomini
Autenticazione e registrazione del documento
privato triestino nel secolo XIV
Nella prima metà del secolo XIV, in un territorio piuttosto ampío sembra che l’autenticazione notarile non fosse più sufficiente a garantire la fede pubblica del documento, che si fece sottoporre perciò al controllo dell’autorità comunale, creando l’istituto dei Vicedomini col compito d’iscrivere i documenti nei loro libri ed apporre la loro sottoscrizione a convalida dell’autenticum.
L’area nella quale si nota in più punti l’esistenza di questa carica con funzioni, almeno in parte affini, e definita con tale nome, viene delimitata da una parte da quella veneziana — dove la diplomatica del documento privato ebbe un suo particolare sviluppo — e della Terraferma veneta, e dall’altra, dall’estremo arco delle Alpi. Essa comprende il territorio del patriarcato d’Aquileia, la città di Trieste, Pola ed alcune altre città istriane, dove, cessata la dominazione bizantina, per una situazione d’incertezza politica dovuta ai plurimi legami feudali, si fece sentire per secoli il duplice influsso degli ambienti patriarcale e veneziano contemporaneamente1, venendosi [p. 1298] così a formare una specie di koiné culturale ed istituzionale. Ma è nel comune di Trieste che il fenomeno dei vicedomini assume per noi dimensioni apprezzabili, grazie alla felice coincidenza della conservazione, per un lungo arco di tempo2, delle fonti normative assieme a buona parte di quelle della loro applicazione pratica.
La generale povertà delle fonti locali, la quale caratterizza l’area presa in considerazione per i secoli anteriori al XIV, non ci permette d’individuare l’origine di questo istituto diffuso in tutta la zona con le stesse funzioni, nè di poter collegare con certezza il fenomeno con quello dei meglio noti memoriali bolognesi, ai quali la produzione dei vicedomini triestini, per alcuni aspetti si avicina. I memoriali, iniziatisi nel 1265, se ascoltiamo coloro che vorrebbero vedere nel brandello degli statuti di Pirano del 1274/753 la prima presenza ufficiale della carica, precederebbero di appena un decennio l’istituto istriano, e perciò facilmente potrebbero esserne considerati la matrice. La fonte non fornisce, però, molti elementi, ma soltanto un nome in un breve proemio ad una documentazione monca. Perplessità sorgono, poi, per il fatto che nei successivi statuti del 13074, che ci sono conservati integri, i vicedomini non sono stati ancora inseriti fra le cariche di quel comune, ma d’altra parte non si può nemmeno sottacere che nei documenti piranesi essi compaiono già da poco dopo la metà del secolo XIII5. Ciononostante, mi sembra di poter affermare che è soltanto con i due capitoli addiettizi del 1322, collocati nel volume della prima redazione degli statuti di Trieste, che è stata datata da [p. 1299] alcuni al 1315 e da altri al 13186, che si viene finalmente ad avere una conoscenza precisa dell’istituto: norme che danno l’avvio alla funzione in modo inequivocabilmente definito, in un momento, però, cronologicamente distante già più di mezzo secolo ed anche politicamente alquanto diverso da quello nel quale ebbero origine i memoriali bolognesi. In tale prospettiva rimane sempre difficile riuscire a stabilire, come aveva già esservato il Cencetti7, se e fino a qual punto i memoriali avessero potuto influire sull’istituzione triestina e degli altri comuni dell’area in mezzo alla quale Trieste si trova.
Se l’esistenza dei vicedomini è generalmente abbastanza nota, e già il Pertile8 ne aveva parlato accostandoli agli istituti di Bologna, Ferra e Modena, lo sono assai meno sia le funzioni, sia la procedura alla quale essi dovevano attenersi. La descrizione che se ne darà avrà perciò lo scopo di enucleare da statuti, addizioni e riformazioni, quegli elementi che potranno essere utili alla conoscenza di un particolare fenomeno che la loro affermazione sembra aver provocato e cicè una sorta di scissione fra autenticazione, che resterà prerogativa dei notai e la bona fides che verrà conferita al documento dai vicedomini.
[p. 1300] Dal momento della loro istituzione, il comune di Trieste fu molto attento alla funzione dei vicedomini e perciò molte sono le addizioni che si sono susseguite dopo il 1322; sono gli anni nei quali si pongono le basi della normativa in materia, che andrà meglio precisandosi via via nelle statuizioni del 13509, 136510 e del 142111, ma che troverà la chiarificazione di molti dubbi appena negli statuti concessi dall’imperatore Ferdinando I nel 155012. Da allora i vicedomini proseguiranno nei loro compiti in modo pressoché invariato finché nel secolo XVIII, cadute in desuetudine parte delle loro funzioni, nel 1767 verranno soppressi13.
La motivazione dell’istituzione è espressa nel breve esordio all’addizione del 1322 sulle modalità dell’elezione. Quia maliciis hominum obviandum est et ne de cetero inter contrahentes questio aliqua vel dubium oriatur14, si poneva in essere un apparato al quale si affidavano mansioni ai fini della tutela dei diritti dei cittadini, una magistratura costituita di sole due persone, la cui azione doveva concretarsi [p. 1301] collegialmente. Era loro compito tenere dei quaterni nei quali conservare la memoria degli iura hominum15, mediante l’assunzione della documentazione, sostanzialmente in due forme diverse: de verbo ab verbum, ed in questo gruppo si comprendevano testamenti, inventari, precetti oltre un certo importo, compromessi, sentenze, arbitrati ed ogni altro genere di instrumenta e di scripturae publicae già manu publica roborata. L’altro comprendeva le eccezioni alla prima e cioè gli instrumenta debiti e le vendite, dei quali i vicedomini erano tenuti a registrare solum substantiam contractus, in altri termini il tenor negocii, ma al già ampio elenco che comprendeva, oltre ad una datazione abbreviata, quasi tutte le parti del testo e delle clausole finali, si concedeva pure l’accoglimento di quicquid ipsis vicedominis aliud videretur utille ad sciendum16.
Nella prima categoria si trovavano elencati i testamenti, per i quali però l’intervento dei vicedomini non si limitava alla registrazione, ma essi o almeno uno di loro, doveva presenziare anche all’azione al fine di tutelare che la volontà del testatore non venisse tradita. Ascoltatane la lettura davanti al testatore e ai testimoni, il vicedomino doveva prenderne la notam seu protocollum17 e conservarla nell’ufficio della vicedomineria finché, morto il testatore, non fosse venuto il momento che il notaio lo autenticasse. Uditane nuovamente lettura, perché non ne fosse mutata la sostanza, il testamento doveva venir vicedominato, ciò che si effettuava con la copiatura nei quaterni dall’autenticum e con la sottoscrizione di questo da parte di ambedue i vicedomini18. Solo allora l’istrumento poteva venir considerato valido, cioè fornito di publica fides.
Nei loro quaterni, la cui serie, seppure incompleta, costituisce una delle fonti più continue per la storia del comune di Trieste, l’iscrizione dei documenti si attiene alle disposizioni statutarie, che agli [p. 1302] effetti della registrazione si riduce alle due forme già citate: registrazione integrale oppure per estratto, a seconda dei casi stabiliti negli statuti19. I registri o quaterni dovevano essere di carta bambacina e protetti da un foglio di pergamena20. Più tardi i quaderni vennero raggruppati non più per serie, ma cronologicamente, sicché si è alquanto perduto il senso dell’articolazione delle funzioni21. Ad ogni modo, le principali di esse potevano riassumersi nelle serie di atti privati, con i testamenti talvolta a parte, e degli atti civili, contenenti la sentenze delle cause civili. Delle altre mansioni non è rimasta traccia. Ma anche per queste non sempre era stata osservata una divisione netta. La scrittura, sempre notarile, per lo più assai corsiva e personale, si stende sulla piena pagina, lasciando sulla sinistra un margine sufficiente ad accogliere qualche annotazione, che si limita, però, al nome del destinatario, che può essere anche di mano dell’altro vicedomino o di mano più tarda. Se la data può essere abbreviata, se ne omette l’anno e talvolta anche il giorno, facendo riferimento al documento precedente. Alla fine del testo si annota il nome del notaio che aveva esteso l’autenticum o che aveva redatto, in funzione di cancelliere, la sentenza, e sulla stessa linea, la dichiarazione che il documento è stato «vicedominato»: Vicedominata et manu N.N. notarii scripta22 o Manu N. N. notarii scriptum et fuit (o est) vicedominatum23, tavolta intervallando i due elementi (notaio e vicedominatura) con uno spazio bianco ed inquadrando le due formule con tratti di penna. Nell’iscrizione di copie si raccoglie pure la formula notarile al completo. La mano non è unica, ambedue i vicedomini possono scrivere nello stesso quaderno, senza regola apparente, ma ciò è naturale, poiché, se sussiste l’obbligo di rimanere continuativamente in vicedomineria24, vi sono pure dei compiti che costringono a spostamenti, come [p. 1303] per raccogliere testamenti o per assistere alle cause civili, per i quali non è obbligatoria la presenza di entrambi contemporaneamente. L’ambiguità che potrebbe derivare dal dettato delle norme quando vi si parla dei loro quaderni, ci viene chiarita solo in parte dall’intitolazione, che alcuni registri hanno conservato sulla coperta di pergamena o sulla prima carta, e cioè di appartenere ad ambedue i membri in carica25, poiché se l’in utroque quaterno va interpretato come se ciascuno dovesse tenere un quaderno per le stesse registrazioni non avremmo la possibilità di controllarlo, in quanto non ci è conservato per alcun anno alcun doppione, ma se le disposizioni dello statuto del 1550, che prevedono appunto la doppia registrazione, sanciscono un’antica prassi, dovremmo dedurre che la serie è rimasta assai lacunosa o che sia stato condotto la scarto del doppione. Ma meglio che dai registri, le loro funzioni si possono cogliere dalla normativa, che ci farà comprendere le ragioni delle forme della documentazione. Va però ancora qui accennato che l’azione dei vicedomini sull’instrumentum collocava la sua testimonianza nella sottoscrizione, che si inseriva su due righe, una per ciascun vicedomino, nel mezzo dello spazio lasciato libero fra il testo e la completio con la semplice formula: ego N.N. vicedominus subscripsi26, e che nel corso del XV secolo diverrà ego N.N. vicedominus communis Tergesti vicedominavi et me subscripsi27, probabilmente per la sopravvenuta necessità [p. 1304] di specificare la provenienza, data la diffusione raggiunta dalla carica. Più complessa, per le dichiarazioni che comportava, essa si presentava nel caso in cui il vicedomino doveva sostituirsi al notaio nell’exemplare atti, la cui copiatura rimaneva riservata ai vicedomini28.
La procedura, dunque, prescrive che tutti i documenti presentati dal notaio in publicam forman — era questa la conditio sine qua non per ottenere la vicedominatura — venissero letti in presenza dei vicedomini ai testimoni ed alle parti e, se costoro ne approvavano il dettato, i vicedomini potevano perfezionarli29.
Dal 1322, tutti gli instrumenta et scripture publice elencati nello statuto addiettizio, trovati senza il crisma della vicedominatura non avrebbeto potuto più avere valore nè pubblica fede30. Il concetto che si potessero vicedominare solo documenti redatti in publicam formam e quello della presenza dei vicedomini alla lettura di controllo del documento sono ripetuti nello statuto aggiunto l’anno successivo31 e quindi in seguito, sia per i testamenti, per i quali si specificavano più dettagliatamente le fasi cautelative e si ponevano stretti termini per il loro adempimento, sia ancora per gli altri instrumenta e per le sentenze publicatas per cancellerios, come pure per l’obbligo della doppia sottoscrizione dell’ instrumentum32.
[p. 1305] Fra le altre, sembra interessante ricordare due addizioni del 1327 e del 1338, per gli aggiustamenti che comportano su vari punti. Per la prima, poiché già i quaderni non dovevano uscire dalla vicedomineria se non in casi di sindacato, si concedeva ai notai di estrarre copia — da vicedominarsi in seguito — dagli ipsis suis quaternis manu propria scriptam, ma la copia doveva essere stesa davanti ai vicedomini, mentre alle stesse autorità del comune — podestà, vicario e giudici — si dovevano fornire, se richiesti, soltanto gli exempla estratti da parte dei vicedomini e dovevano de ipsis scripturis satisfieri, poiché a tali copie de actibus tamen exemplata per ipsos vicedominos adhibeatur plena fides33. L’altra addizione si riferisce invece ai documenti di data anteriore all’istituzione della vicedomineria, per i quali si chiariva, ma solo dopo molti anni, che non erano tenuti alla vicedominatura, come pure ne erano esenti le concessioni di feudi e di decime emanati o da emanarsi da parte dei vescovi di Trieste34; sanatoria, forse, di qualche tensione nei non facili rapporti del comune col vescovo in quegli anni. I documenti extraterritoriali, non vicedominati altrove, si ammettavano alla vicedominatura, soltanto se di notai bone fame e compiuti coram ydoneis testibus35. I vicedomini dovevano inoltre presenziare costantemente ai placiti36 e conservare i registri di alcune magistrature, come i cancellieri ed i notai degli stimatori37.
Con la raccolta statutaria del 135038, che dà un migliore assetto alle norme caoticamente ammassatesi nel frattempo, e con la successiva rielaborazione del 1365, si andarono meglio precisando le loro [p. 1306] funzioni fondamentali, soprattutto nel controllo sulla stesura della sostanza del contratto e nella conservazione della documentazione. Questa si rivolgeva a materiale di carattere privatistico, dato in primo luogo dai loro stessi quaterni, e quindi da altri registri degli atti del comune che si riferivano ai cittadini in materia civile, ma vi si aggiungevano anche il libro delle consuetudini39, gli elenchi delle cariche, specialmente dei notai40. Abbinando, inoltre, al concetto di conservazione quello della riservatezza — in vicedomineria, infatti, non si ammetteva alcuno se non ad fenestram41 — si affidavano ai vicedomini le claves sacristie communis42 e addirittura quelle della loggia che fungeva da deposito degli armamenti43; più tardi anche di una di quelle denariorum communis44. In tal modo la funzione della conservazione, che inizialmente sembrava quasi un’attività derivata dalla necessità di garantire, tramite la registrazione nei quaderni, la sicurezza dei rapporti fra i cittadini, si andò estendendo ad una sempre più larga tipologia di materiale, assurgendo ad un ruolo parallelo.
Non ostante le intenzioni di eliminare le ridondanze e di concentrare e meglio definire le norme, nella raccolta del 1350 rimasero ancora alcune incertezze. Nessuna disposizione prescriveva ai notai di consegnare i propri registri in vicedomineria — tanto più che alla loro morte, se non passavano ad un notaio designato, venivano assegnati in custodia ad altro notaio fra i congiunti più prossimi45 e se non ve ne fossero, doveva sceglierne uno il comune — ma si concedeva loro di autenticare i documenti, come già nell’addizione del 132746, dal quaternum dicti notarii existentem in vicedominaria47, nè si accenna in quel passo ai notai di quelle cariche obbligate alla consegna [p. 1307] dei propri libri, fatto al quale si potrebbe supporre ci si riferisse. Qualche perplessità reca pure un altro paragrafo: mentre il precedente statuto del 1323 aveva limitato l’iscrizione per estratto solo a debiti e compravendite48, si prescrive ora di riportare solum substantiam contractus, senza specificare con chiarezza quali contratti si intenda49. Per il resto, si ribadisce che per le sentenze di vario tipo — e si aggiungono le intromissioni e le protestationes — si attengano alla trascrizione integrale50. Compaiono, poi, altre specie di documenti da vicedominare, quali i precepta debiti vel depositi e le procure51. Un apposito registro doveva venire riservato agli atti dei procuratori52 ed uno alle cauzioni dei canipari delle confraternite53. Restava immutata la disciplina dei testamenti, con qualche precisazione su quelli delle donne54, sulle formalità della sigillatura delle notae55 e qualche variazione nelle presenze testimoniali. Si dava tempo un anno56 e più tardi due57, per gli adempimenti della vicedominatura, ma se le parti fossero state in accordo, si ammetteva il ritardo58. Neppure per le doti e le successioni nei beni di famiglia il limite era tassativo, ed in giudizio si ritenevano pro vicedominata59. A parte si riaffermava che, purché vicedominati, omne genus instrumentorum sint firma et rata, accettuati quelli lesivi di diritti e contra statuta60. Ai documenti provenienti da territori e notai forestieri, si [p. 1308] insisteva nulla fides adhibeatur se non vi fossero allegate le littere attestanti che il notaio era bone condicionis et fame61. Si finiva, inoltre, per pretendere che i notai facessero vicedominare il loro privilegio di notariato, altrimenti non avrebbero potuto esercitare62. Infine, alle scritture che si trovavano in vicedomineria, anche se non vicedominate, si attribuiva comunque efficacia, come se lo fossero63.
Da quanto sommariamente esposto, mi sembra si possa già individuare che l’aspetto più caratterizzante dei vicedomini è quel collocarsi sin dall’inizio quali depositari, tutori e dispensatori della publica fides della quale la figura del notaio viene improvvisamente, se non spoliata del tutto, almeno notevolmente affievolita. Anzi l’insistenza sulla lettura alle parti64 davanti ad almeno uno dei vicedomini parrebbe far credere che il controllo volesse indirizzarsi soprattutto sul comportamento del notaio, affinché l’omissione della lettura del documento, dopo la suà redazione in extensum, non potesse coprire eventuali travisamenti, magari dolosi, delle intenzioni dei contraenti. La breve arenga dello statuto istitutivo del 1322 farebbe presumere fosse invalso un certo malcostume o un indulgere alla scarsa chiarezza, donde il maliciis hominum obviandum est, ancor più sottolineato nella proibizione di vicedominare documenti in sentore di frode cum fraus et dolus nemini patrocinari debet65.
Il momento nel quale si introducono i vicedomini non è segnato per il comune di Trieste da particolari rivolgimenti66 che giustifichino delle restrizioni. Istituiti durante la podesteria di Monfiorito da Coderta, di probabile formazione patavina, noto oltre che per i suoi trascorsi fiorentini degni dell’inferno dantesco, anche come giudice del collegio di Treviso e per i suoi consilia67, vengono riformati e rafforzati [p. 1309] sotto altri podestà, prevalentemente veneziani68, come veneziano è Marco Dandolo, che iniziò la correzione degli statuti nel gennaio del 135069, poi pubblicata nel maggio dello stesso anno da altro veneziano, Giovanni Foscari70. Costui nuovamente podestà nel 1365 darà il via alla nuova revisione, nella quale viene ulteriormente migliorata anche la suddivisione e la struttura dei vicedomini, senza però ancora raggiungere la chiarezza come nello statuto del 1550.
L’istituto di diffonde nelle altre città dell’Istria e, più tardi nel 1366, sebbene in forma un po’ diversa, trova posto nelle costituzioni date al Friuli dal patriarca Marquardo. Non sembra perciò si possa vedervi una spinta politica esterna, ma forse soltanto un reale desiderio di tutelare il cittadino illitteratus dal prevalere della classe detentrice della cultura scritta, che si potrebbe forse identificare in quella notarile, nella quale quei novos et subtiliores mores, già al suo tempo deprecati da Rolandino, e sottolineati dall’Orlandelli71, potevano aver preso il sopravvento, sicché un controllo del comune sul loro agire si rendeva necessario72.
Ad ogni modo, che agli inizi del secolo XIV si istituzionalizzasse addirittura un apposito organo per rendere più stretto il controllo, non sembra un fenomeno generale, anche se non unico, e sembra trattarsi comunque dell’inserirsi di un elemento nuovo, che in un certo senso viene a turbare, almeno localmente, certe consolidate immagini generiche dell’affermarsi del potere del notaio.