[p. 1041] Il documento notarile greco in Italia meridionale1
Superano largamente il migliaio i documenti medievali greci che provengono dall’Italia meridionale e dalla Sicilia. Il loro numero va ancora crescendo per ritrovamenti in fondi di biblioteche e in archivi privati: così nell’archivio del duca di Medinaceli a Siviglia sono state scoperte 250 pergamene circa, ancora inedite, ma di cui sappiamo che risalgono ai secoli XII-XIV, sono di vario contenuto e attengono prevalentemente al monastero di S. Salvatore di Messina. Tra i documenti in esame pochi sono quelli pubblici — atti emanati e privilegi concessi dai funzionari bizantini e dai successivi sovrani e signori feudali — mentre la massa è costituita dai documenti privati, normalmente notarili.
Il periodo che essi abbracciano è lunghissimo se consideriamo che il primo atto pubblico è dell’885 e il più antico documento privato del 981, mentre l’ultimo che conosciamo, una permuta da Terra di Otranto, ci porta al 1401. Un decorrere di secoli, dunque, che ai dominatori bizantini vede succedere normanni, svevi, angioini e infine aragonesi. E’opportuno distinguere, e più oltre se ne illustrerà il significato, i documenti in tre fasi: quella strettamente bizantina, [p. 1042] quella normanno-sveva fino alle costituzioni melfitane, quella successiva alle costituzioni stesse.
Molti documenti e di ogni epoca vengono dalla Puglia, il tema di Longobardia dei bizantini, e precipuamente da Taranto e dal Salento. Invece Bari — a parte gli atti pubblici dei funzionari bizantini — è terra di documentazione latina. Due soli ed eccezionali sono i documenti greci che essa ci restituisce: il testamento di una donna di Stilo, che viene a morire a Bari, e la vendita che un soldato di Costantinopoli fa di una casetta prima di tornare in patria. Nell’uno e nell’altro caso si deve ricorrere a notai occasionali. Minori, fors’anche per la diuturna povertà della regione, i documenti provenienti dalla Basilicata o tema di Lucania. Moltissimi e di ogni epoca vengono invece dalla Calabria, la zona di massima penetrazione greca: esclusivamente o prevalentemente greci restano a lungo i suoi documenti, se pensiamo che la documentazione privata latina non comincia prima della seconda metà del XII secolo. Moltissimi documenti greci offre pure la Sicilia, ma solo a partire dall’età normanna. L’assenza di documenti più antichi, nonostante che la popolazione del nord-est dell’isola fosse da tempo prevalentemente greca, rimane un mistero. Se ne sono proposte soluzioni radicali, come la fuga dei greci o la loro riduzione ai margini della società di fronte all’occupazione araba, o soluzioni più tecniche, come l’adozione dell’arabo quale lingua e/o del papiro e della carta quali materiali scrittorii, più deperibili della pergamena nel nostro clima. Un fenomeno a sé stante è quello della trentina di documenti di Pertosa, in Campania, che vanno dal 1092 al 1181. Si tratta di una località che mai fu bizantina: considerando anche il linguaggio particolarmente povero, sgrammaticato e avulso dal filone bizantino riesce plausibile pensare ad un insediamento di contadini greci, calabresi o siciliani, ivi rifugiatisi.
Il documento greco d’Italia va inserito nella generale linea di sviluppo del documento privato bizantino. Questo ci è perfettamente noto, nella sua struttura e nella sua normativa, per il periodo che va dal IV al VII secolo. Da un lato possediamo i moltissimi papiri d’Egitto e quelli di Nessana, nella Palestina meridionale, e qualche raro documento della stessa Costantinopoli; dall’altro è ben nota la [p. 1043] ricca legislazione che gli imperatori d’Oriente e precipuamente Giustiniano dedicano al documento e al notariato. Seguono secoli in cui del documento nulla sappiamo, corrispondenti ai tempi bui degli imperatori isaurici e della controversia iconoclastica. Il documento che ritroviamo dalla fine del IX secolo negli archivi dell’Athos presenta nuovi aspetti, come le caratteristiche soprascrizioni delle parti, in luogo delle precedenti sottoscrizioni, e la data posta verso la fine del testo e calcolata dall’anno della creazione del mondo, che subentra alla datazione iniziale col triplice sistema dell’anno di regno, del consolato e dell’indizione, voluta da Giustiniano nel 537 con la Novella 47. Tali rinnovati aspetti ritornano nei documenti italiani. Ciò ci aiuta a precisare la genesi di questi ultimi. Prescindendo da ogni eventuale traccia nell’Italia meridionale della grecità dell’antica Magna Grecia e più concretamente dalla riconquista giustinianea, il fenomeno della documentazione greca a noi pervenuta va ricondotto ad eventi più recenti. Più ancora che alla reiterata conquista militare bizantina ad opera della dinastia macedone — richiamo l’attenzione su Bari che, pur sede del catepano d’Italia, rimane terra di documentazione latina — il documento greco va ricollegato, quale fatto d’importazione, alle molte immigrazioni di greci, sospinti dagli arabi o dagli slavi, o mossi da motivi di politica, di religione o di commercio, e al diffuso fiorire dei monasteri basiliani.
Il rapporto del documento greco con quello latino è dapprima, nelle zone di maggiore penetrazione greca, d’influenza del primo sul secondo. Ne danno esempi alcuni atti latini di Messina, che risultano modellati sui coevi greci. In prosieguo il rapporto si rovescia. Il documento latino comincia a prestare certe sue clausole a quello greco, poi lo foggia secondo i suoi formulari, infine lo soppianta sino a eliminarlo. Per chiarire questo sviluppo è d’uopo richiamare la tripartizione cronologica cui già si è accennato.
La fase strettamente bizantina, che si chiude definitivamente col 1071, quando i bizantini abbandonano Bari, presenta i documenti più vicini al modello orientale e più alieni da altre influenze. Sono più di ottanta testi, per lo più di edizione recente, che non hanno ancora ricevuto una sufficiente valutazione complessiva. Ad essi ho pertanto [p. 1044] dedicato la maggiore attenzione, anche perché è sulla loro base che si può validamente discutere della genesi — orientale o invece occidentale — di certi elementi che si faranno palesi nei documenti posteriori, quali la ricomparsa completio e la partecipazione dei giudici ai contratti.
I documenti in questione provengono da località assai diverse, anche se il gruppo più numeroso è quello di Oppido in Calabria. Tuttavia non si lasciano ravvisare differenze di stile o di formule attribuibili alle diverse zone. Le varietà sono da ascrivere piuttosto alla diversa mano dei notai, operanti magari nello stesso luogo. Perché da notai sono stati scritti normalmente i nostri documenti: anche lá dove il loro nome testualmente non figura, appare probabile il loro intervento ed è comunque evidente l’uso di formulari. Tra i notai prevalgono nettamente gli ecclesiastici — come rivelano gli appellativi di πρεσβúτερος, ἱερεúς, πρωτοπάπας, μóναχος, ἀρχ′ μανδρíτης — anche se qua e là, in ispecie a Taranto, appaiono operare alcuni laici. Certi testi danno l’impressione di un’organizzazione notarile, sia sotto il profilo territoriale, sia sotto il profilo gerarchico. Così leggiamo di un notaio di Oriolo e di uno di Viggiano. Altrove leggiamo che l’atto è stato scritto da un tale, senza particolare qualifica, per mandato di un altro, qualificato ταβουλάριος. Vi erano dunque semplici scrivani e persone investite dell’ufficio di notaio. Ma riferire soltanto ai primi la denominazione di νοτάριος in subordine al ταβουλάριος-sulla base di alcuni documenti più tardi — non è possibile, perché tante volte i due termini sono usati indifferentemente, nel senso effettivo di notaio, mentre altre volte sono entrambi taciuti. Né è possibile determinare se e in quale modo l’autorità di notaio derivasse dal potere publico, o se invece, specie nei luoghi più isolati, derivasse spontaneamente dal fatto che il prete era la persona più istruita e praticamente l’unica cui ricorrere per la confezione degli strumenti. Comunque siamo ben lontani dalla fiorente ed aulica corporazione dei ταβουλλάριοι di Costantinopoli, che Leone il Sapiente disciplina minuziosamente intorno al 911-12 nell’ ἐπαρχικòν βιβλíον o libro del prefetto.
Venendo alla struttura del documento, è opportuno distinguere [p. 1045] tra atti inter vivos e atti mortis causa, perché ciascuno dei due gruppi presenta una linea abbastanza costante, ma ben differenziata dall’altra.
Gli atti tra vivi, rappresentati soprattutto da vendite e donazioni, con qualche raro caso di altri negozi di alienazione, iniziano sempre con la segnatura dell’emittente o degli emittenti, che assume il valore dell’attuale firma, ma soprascritta anziché sottoscritta. Nell’espressione più semplice essa suona: + σíγνον χειρóς oppure soltanto + σíγνον del tale, seguita spesso dal patronimico, raramente dal mestiere. Segue poi — preceduta magari dalla croce, che ricorre anche altrove — l’invocazione divina, la cui formulazione più frequente è: ἐν ὀνóματι τοũ πατρòς καì τοũ υἱοũ καì τοũ ἁγíου πνεύματος. In alcuni casi essa si presenta più ampia e in un solo esempio è seguita dalla data, espressa con riferimento agli imperatori, al patriarca di Costantinopoli e al catepano d’Italia.
Il testo del documento è introdotto nelle donazioni pie da una motivazione di carattere generico — cosidetta arenga o esordio — mentre solo in qualche raro negozio si fa richiamo a specifiche ragioni dell’emittente. Questi si notifica con una formula del tipo ἐγὼ ὁ προγεγραμμένος … ὁ τòν τíμιον καì ζωοποιòν σταυρòν ἰδιοχεíρως πήξας (oποιήσας o altro verbo equivalente). Richiama cioè la segnatura, aggiungendo, quand’anche il nome è autografo, oltre alla croce, σὺν τῷ οἰκεíῳ μου ὀνόματι o una frase analoga. Ma ciò si trova ben di rado per il diffuso analfabetismo. Gli stessi notai scrivono con ogni sorta di sgrammaticature, ingannati anche dalla pronuncia, specie dall’itacismo, del greco parlato. Capita pure, e si spiega nelle copie, che croci e nomi siano tutti di mano notarile.
Successivamente l’emittente enuncia il negozio in forma soggettiva. Così parlano in prima persona il donante, e in generale l’alienante, ma anche il venditore, esponendo la compravendita dal suo punto di vista. All’uopo si adoperano espressioni che vanno dal semplice dono (vendo ecc.) — con forma via via più complessa — al faccio la presente donazione (vendita ecc.) scritta, con la quale dichiaro di donare (vendere ecc.): a tali espressioni si ricollegano dichiarazioni [p. 1046] che il negozio è fatto di spontanea volontà ed è scevro da errore e violenza. Negli atti di alienazione si enumerano minutamente le facoltà, inerenti al dominio, che passano all’acquirente, al quale, nel caso specifico della vendita, si dà atto di aver ricevuto il prezzo. La cosa trasferita viene opportunamente individuata, con le idonee indicazioni sull’ubicazione e i confini per quanto riguarda fondi e case. Senza insistere ulteriormente su queste clausole, che presentano le maggiori variazioni, connesse al negozio e all’oggetto, e che in diverso modo si accavallano e si mescolano, va notato in via generale che non esistono distinzioni temporali tra conclusione del negozio e sua documentazione scritta, ma le due cose appaiono contestuali nel compimento e negli effetti. A conclusione del testo fanno spicco due clausole. Anzitutto la clausola penale, così tipicamente bizantina, che commina all’emittente trasgressore dei suoi obblighi — sia negativi, di non molestare in alcun modo la controparte, sia positivi, di assisterla e difenderla dagli attacchi altrui — ma talora anche ai terzi importuni, terribili pene spirituali, quali la maledizione divina e la fine di Giuda, e più concrete pene pecuniarie, da pagare al controparte e/o al fisco. In rari casi interviene a rafforzare il negozio un giuramento su Dio e sulla salvezza dell’imperatore. Ma di regola è presente la clausola di corroborazione, che esprime l’auspicio che l’atto rimanga per sempre valido e fa riscontro all’antica clausola κυρíα dei papiri.
La parte finale del documento si apre con una frase più o meno del seguente tenore: ἐγράφη ἀξιώσει ἐμῆ διὰ χειρòς — ossia fu scritto su richiesta mia (dell’emittente) per mano — del tale tabulario, oppure del tale (scriba) su mandato del tale tabulario, alla presenza di testimoni degni di fede. La stessa frase prosegue con la data, calcolata col sistema prettamente bizantino dell’indizione dal 1 settembre e dell’anno dalla creazione del mondo, cioè dal 5508 a. Cr., mentre manca normalmente il luogo. Seguono le sottoscrizioni dei testimoni, redatte in forma soggettiva — + σíγνον χειρòς di …; + io … μάρτυρ ὑπέγραψα — e in numero vario, spesso di cinque. Diciamo fin d’ora, salvo a ritornare sul punto, che tra i testimoni figurano spesso personaggi importanti, di cui sono [p. 1047] precisate le cariche civili o religiose, o che vengono designati in generale come ἄρχοντες.
Passando agli atti a causa di morte, abbiamo adesso quattro testamenti. La loro struttura è anzitutto caratterizzata dall’assenza di soprascrizione: il testatore non l’appone e neppure sottoscrive in fondo. L’invocazione, accanto alla solita forma in nome del padre e del figlio e dello spirito santo, può essere più ampia o invece mancare. Come nelle donazioni pie c’è l’arenga, che fa richiamo ad una motivazione generica, nel caso l’umana mortalità, ma che può anche mancare, o al contrario essere molto ampia e rafforzata da argomenti specifici. Il testatore fa quindi in suo nome — assicurando qui o più oltre la sanità di mente e l’assenza di vizi — ed esprime in prima persona le proprie volontà, introducendole con ϑέλω καὶ βούλομαι; oppure dichiara di far testamento ed elenca, col verbo καταλιμπάνω ed altri analoghi, i vari lasciti. Precedono generalmente quelli per l’anima, cui seguono gli altri, senza differenza concettuale tra eredità e legato: quest’ultima denominazione appare riservata all’attribuzione di somme di denaro. Troviamo anche esempi di manumissione di uno schiavo e di nomina di un ἐπíτροπος, cioè di un esecutore testamentario. La clausola penale, se non manca, è ridotta a pene spirituali contro chi violi il testamento o ne attacchi le disposizioni. Manca inoltre la clausola di corroborazione. La parte finale del documento è analoga agli atti tra vivi, con la menzione del notaio che l’ha scritto, la data e le sottoscrizioni dei testimoni, da cinque a sette.
Queste linee fondamentali, rispettivamente degli atti tra vivi e degli atti a causa di morte, ritornano con accresciuta articolazione e ricchezza di clausole e maggiore varietà di tipi negoziali nei documenti assai più numerosi dell’età normanno-sveva. Abbiano anche esempi di bilateralità del documento, nel senso che esso figura proveniente da entrambi i contraenti e non da una parte soltanto: ciò avviene per i contratti matrimoniali, o più precisamente diretti a regolare i rapporti patrimoniali tra coniugi. Tali contratti appaiono scissi in due parti equivalenti: nella prima parlano lo sposo o i suoi parenti e nella seconda i parenti della sposa per compiere le rispettive attribuzioni. La redazione dei documenti è normalmente affidata al notariato, [p. 1048] della cui organizzazione non sappiamo molto di più, ma che resta comunque prevalentemente nelle mani di chierici.
I documenti dell’età normanno-sveva sono in gran parte già da tempo conosciuti — magari in edizioni antiquate, che giustificherebbero una revisione — ed hanno anche ricevuto uno studio approfondito, specie ad opera del Ferrari Dalle Spade. Meritano peraltro un rinnovato interesse per alcuni elementi che, ignoti ai documenti dell’età strettamente bizantina, in essi si introducono nel corso del XII secolo. Sono quelli, cui ho già fatto cenno, della ricomparsa completio e della partecipazione dei giudici ai contratti.
Ricordo che la completio era uno dei requisiti stabiliti da Giustiniano per il documento tabellionico. Dal punto di vista sostanziale essa consisteva nella lettura del documento da parte del notaio e nella sua domanda alle parti se esso corrispondesse alla loro volontà, se in altri termini le loro intenzioni erano state esattamente comprese ed espresse. Dal punto di vista formale si traduceva in una dichiarazione apposta dal notaio alla fine del documento di aver compiuto appunto la completio. Ciò facendo il tabellione si assumeva la responsabilità rispetto alle parti per la forma e il contenuto e imprimeva al documento il carattere di instrumentum publice confectum. L’esigenza della completio fu rispettata dai documenti dell’età giustinianea, anche se con diversa formulazione tra i papiri greco-egizi e i papiri ravennati. In prosieguo di questi ultimi essa fu mantenuta dal mondo occidentale e si tradusse nelle carte altomedievali in una stabile clausola. Invece in Oriente, per quanto è possibile arguire attraverso la penuria di documenti, la completio si andò perdendo e le ultime isolate attestazioni terminano con l’inizio del XII secolo. Subentra invece già dalla fine del secolo precedente una vera e propria sottoscrizione del notaio, dal seguente tenore: io… notaio avendo scritto sottoscrissi. Né di completio né di sottoscrizione notarile esiste traccia negli atti greci dell’Italia meridionale di età bizantina, come dimostra l’esame precedentemente svolto. Resta allora da spiegare perché la completio — e non già la sottoscrizione notarile — appaia in atti greci, sia pure sporadici, d’Italia a partire dalla prima metà del XII secolo. Pensare sotto i re normanni e svevi al recupero di un’antica [p. 1049] clausola bizantina, ormai desueta e sostituita in Oriente, riesce più difficile che pensare ad un’imitazione della completio fatta propria dai documenti latini. E in effetti analoga è la formulazione, posta a chiusura di tutto: io… notaio scrissi e completai, dove a complevi corrisponde ἐτέλεσα oppure ἐκύρωσα.
Assai maggior rilievo assume il fenomeno della partecipazione dei giudici ai contratti. Nel corso del XII secolo, con frequenza ognora crescente, intervengono nella formazione del documento, oltre al notaio che lo redige e ai testimoni, lo στρατηγός del luogo o uno o più κριταí, che presenziano all’atto e poi sottoscrivono. Questa forma di volontaria giurisdizione si diffonde tanto nell’Italia meridionale che in Sicilia. Così a Palermo sono molti gli atti scritti alla presenza di giudici, mentre a Messina prevale la presenza dello stratigoto, qualche volta unitamente ai giudici. E’ l’atto stesso a dar notizia di esser stato compiuto dinanzi a loro, oltre a recarne in fondo le sottoscrizioni. Il fenomeno comprende anche i documenti latini e si rafforza — anche se per vario tempo non spariscono documenti compiuti senza l’intervento di magistrati — fino a trovare la sua sanzione nelle costituzioni melfitane del 1231. Federico II impone, e gli angioini ribadiscono, la partecipazione ai negozi di appositi giudici, la cui nomina è rivendicata al potere centrale: iudices ad contractus per la documentazione latina, κριταí ἐπὶ τѽν συναλλαγμάτων per quella greca. Ma quale la genesi del fenomeno? Il Ferrari Dalle Spade lo ricollega alla lontana all’instrumentum publicum del diritto romano, realizzato attraverso l’insinuatio nei gesta municipalia, ma più immediatamente alla precedente documentazione bizantina dell’Italia meridionale, per la quale già parla, come fa poi anche per la documentazione bizantina d’Oriente, di volontaria giurisdizione. Egli si fonda sul fatto che in certi documenti italiani figurino quali testimoni persone qualificate individualmente come giudici o altri dignitari, o designate in generale come ἄρχοντες, intendendo evidentemente il termine nel senso di magistrati. Un discorso analogo egli ripete per i documenti bizantini d’Oriente.
In tutto questo ragionamento c’è un equivoco di fondo. Le persone in questione sono testualmente annunciate e poi sottoscrivono [p. 1050] come normali testimoni, tanto più graditi quanto più sono degni di fede ed autorevoli, appartenendo al ceto dei funzionari civili o anche — in altri documenti — dei dignitari ecclesiastici, di tutti coloro, insomma, che in quel dato luogo e in quelle circostanze rappresentano i notabili. Perché questo è il significato ormai riconosciuto agli ἄρχοντες. In tal senso depongono gli atti greci dell’Italia bizantina: mai che accennino invece ad una funzione magistratuale di partecipare alla formazione del documento. Né lo fanno i testi orientali. Diciamo di più: fin dai papiri greco-egizi il documento consueto al mondo bizantino è quello notarile, di cui possediamo tantissimi esempi, mentre scarsa fortuna, si da non tramandare a noi un solo esemplare, deve aver incontrato l’instrumentum publicum. Non costituiscono un’eccezione, perché appartengono ad un mondo diverso, di sostanziale tradizione giuridica romana, oltre che di lingua latina, i papiri ravennati.
In questi papiri numerosi sono gli atti resi pubblici attraverso l’insinuatio, a cominciare dalla famosa donazione di Odoacre del 489. Ha avuto un’esatta intuizione il Ferrari Dalle Spade a scorgere in ciò la lontana origine dei giudici ai contratti, ma poi si è lasciato fuorviare nella ricerca dell’anello di congiunzione, saltando subito agli atti greci. Appare più naturale cercare il tramite nei documenti latini dell’Italia meridionale. E infatti un primo esame condotto sui documenti della sola Puglia mostra già dal X secolo — nelle carte di Trani, Bari, Terlizzi, Conversano, Monopoli, Troia — atti celebrati ante praesentiam iudicis, ove il magistrato cittadino ha preso il posto della dissolta curia. Appare altrettanto naturale che occorra attendere il tramonto del potere bizantino e l’affievolirsi dell’autonomia, politica e culturale, delle comunità di lingua greca sotto i nuovi sovrani perché l’influenza della documentazione latina, portatrice di elementi diversi, possa efficacemente agire sulla documentazione greca. Ma così arriviamo al XII secolo.
Nel secolo successivo le costituzioni melfitane infliggono un ulteriore colpo alla documentazione greca. Si è detto che esse impongono i giudici ai contratti e ne rivendicano la nomina al potere centrale. Ma a questo potere rivendicano anche la nomina dei notai e ne escludono [p. 1051] gli ecclesiastici. La loro tendenza sarà seguita dal legislatore angioino, del quale rimangono disposizioni concernenti l’elezione dei notai e dei giudici ai contratti. Il notariato greco in ampia misura ecclesiastico ne rimane certamente scosso, anche se chierici continuano ad operare, magari sotto mentite spoglie, non potendo certo ignorare le costituzioni federiciane che, accanto alla redazione latina, ne avevano ricevuta una greca per i sudditi di questa lingua. Ma soprattutto si aggrava la crisi, politica, economica, culturale, delle comunità greche, mentre i monasteri basiliani vengono abbandonati. Lo stesso uso della lingua si restringe all’ambito locale e ai rapporti familiari. La documentazione greca si va pertanto sempre più rarefacendo, sia per numero che per località di provenienza: il Salento, talune zone della Calabria, Messina. Nei testi la datazione torna all’inizio, indica anche gli anni del governo del principe e mette accanto all’anno del mondo quello dell’incarnazione. Alla forma soggettiva subentra lentamente la redazione oggettiva dell’atto. Più in generale i documenti tendono a conformarsi ai formulari latini, quando addirittura non ne rappresentano una traduzione. Uno studio comparativo di questi documenti è ancora da fare e se ne addita l’interesse ai giovani studiosi.
Nel 1401 a redigere in Terra di Otranto un atto di permuta non è un pubblico notaio, ma il prete Matteo, unico a saper scrivere tra i greci partecipanti all’atto, che si dichiarano — compreso il giudice — illetterati. Quell’oscuro prete non sa di segnare la fine della documentazione greca in Italia.