[p. 1109] Gli scriptores chartarum a Roma nell’altomedioevo*
Se si escludono pochissimi documenti degli inizi del VII secolo (dei quali soltanto uno in originale) redatti da tabelliones Urbis Romae1 si deve attendere la metà del IX secolo per disporre di altri [p. 1110] documenti privati redatti a Roma, ed a quel momento la situazione documentaria romana si presenta particolarmente composita. Appaiono infatti coesistere due corpi di scrittori professionali di documenti privati, o comunque scrittori che si qualificano con titoli diversi: da una parte i tabelliones Urbis Romae, eredi, sembrerebbe, dei tabellioni di età tardoantica dei quali mantengono il titolo, dall’altra gli scriniarii sanctae Romanae ecclesiae, scrittori formatisi nell’ambiente della cancelleria pontificia, dove, da almeno un secolo (la prima notizia è del 711), sono addetti alla custodia dello scrinium ed alla confezione dei documenti da essa emanati2. A questi sembrerebbe poi aggiungersi un terzo gruppo di rogatari, che si qualificano come scriniarii et tabelliones, circostanza questa che contribuisce a delineare una situazione tutt’altro che chiara e definita. Data la quasi totale assenza di documentazione per il periodo che precede la metà del IX secolo è praticamente impossibile stabilire quando sia venuta determinandosi questa pluralità di titoli tra gli scriptores chartarum, quello che è certo è che alla metà del IX secolo, ossia nel momento in cui se ne prende atto, la situazione appare essere ancora in fase evolutiva. Infatti da allora e poi per tutto il corso dei secoli X ed XI si può facilmente seguire un graduale aumento degli atti rogati da scriniari ed una corrispondente diminuzione di quelli rogati invece da tabellioni3, finché, proprio alla fine dell’XI secolo, non si registra la totale [p. 1111] scomparsa del titolo di tabellio Urbis Romae nei documenti romani4.
Il duplice problema, costituito, prima, dal coesistere di scriptores chartarum dalle diverse qualifiche e, poi, dalla sopravvivenza di un unico ed indiscusso titolo, quello di scriniarius, ha interessato diversi diplomatisti che hanno formulato due opposte interpretazioni: da una parte si è ipotizzata la totale scomparsa del collegio tabellionale, che sarebbe stato soppiantato dagli scriniari, dall’altra la fusione dei due gruppi di scrittori in un’unica categoria di scribi, i cui componenti avrebbero assunto indifferentemente le qualifiche di scriniarii sanctae Romanae ecclesiae, tabelliones urbis Romae oppure di scriniarii et tabelliones5. Tale fusione, secondo questi autori, sarebbe stata la [p. 1112] conseguenza diretta di un continuo contatto e di una interscambiabilità tra i due corpi di scrittori, che esercitavano ormai da tempo lo stesso mestiere, indirizzati alla medesima clientela.
Per brevità non mi soffermerò ora ad esporre nel dettaglio come i diversi autori sono intervenuti nel dibattito, se non per ricordare i due che da ultimi e più approfonditamente si sono occupati del problema. Il primo è Alain de Boüard, che nel 1911, intervenendo a riesaminare la questione in maniera più organica e più approfondita di quanto non fosse già stato fatto in passato, rivide i termini della questione e ribadì la necessità di indagare se e fino a quando scriniari e tabellioni avessero operato in maniera diversa e quindi autonoma nella redazione dei documenti privati6. Per far questo egli suggerì di condurre un esame comparato dei tre principali elementi di caratterizzazione che scaturivano dall’analisi dei documenti conservati (in particolar modo di quelli conservati in originale), ossia la scrittura, la lingua ed i signa usati dai rogatari romani. E’ evidente che, se da un esame così congeniato fosse stato possibile enucleare elementi di differenziazione tra i documenti redatti dai tabellioni e quelli confezionati dagli scriniari, non si sarabbe potuto parlare di integrazione dei due gruppi di scrittori, visto che tale fusione avrebbe dovuto comportare necessariamente [p. 1113] anche una unificazione dei sistemi, ma si sarebbe dovuto riconoscere in questo un segno della reale coesistenza, nell’arco di almeno tre secoli, di due distinti gruppi di scrittori.
Seguendo questa linea il de Boüard giunse a concludere che tabelliones e scriniarii avevano realmente mantenuto fino in ultimo i propri caratteri distintivi, continuando ad operare separatamente fino alla fine del secolo XI, quando, dopo un lungo e lento processo del quale noi conosciamo soltanto il momento culminante e la fase finale, si era determinata la definitiva scomparsa dei tabelliones, soppiantati dalla progressiva e massiccia invadenza degli scrittori di cancelleria, gli scriniarii. Questi ultimi, spiegava il de Boüard, dopo la riforma della cancelleria pontificia iniziata da Giovanni XVIII, si trovarono gradatamente ad essere soppiantati in quella loro originaria attività da altri scrittori, fu così che, costretti ad abbandonare la cancelleria, si riversarono con una riconversione massiccia nel settore della documentazione privata, verso il quale già da tempo avevano cominciato a rivolgersi, riuscendo ben presto ad avere la meglio sui tabellioni.
La tesi del de Boüard non fu però mai sostanzialmente provata né verificata. L’autore stesso, dopo la giusta premessa metodologica, non condusse un esame accurato dei dati offerti dalla documentazione, ed in particolare due dei tre elementi da lui a ragione giudicati caratterizzanti, la scrittura ed il signum, furono esaminati in maniera un po’ affrettata e poco approfondita. Ad esempio, pur avvertendo una distinzione tra la scrittura dei documenti dei tabellioni e quella dei documenti degli scriniari, il de Boüard non si spinse oltre la constatazione di una differenza di ductus, dovuta esclusivamente ad una maggiore o minore accuratezza dello scriba: le mani degli scriniari, scrisse il de Boüard, erano più abili ed esperte nello scrivere. Ed anche in merito ai signa, pur segnalando la presenza di un «véritable seign professionnel» nella completio dei documenti tabellionali, egli non si accorse, o comunque non diede peso al fatto che anche nella completio delle carte rogate dagli scriniari compariva sempre un simbolo particolare, un vero e proprio elemento distintivo di categoria.
Questo fatto è tutt’altro che trascurabile perché permette di individuare nel corpo degli scriniari una precisa volontà di inserirsi sì [p. 1114] nella tradizione diplomatica locale, ma di trovare nel contempo propri elementi di peculiarità e di tipizzazione rispetto ai tabellioni.
Dopo il de Boüard, a circa sessant’anni di distanza, è stato Pierre Toubert, nella sua notevole opera di sintesi sulle strutture del Lazio medievale pubblicata nel 1973, a riesaminare la questione ed a proporre una soluzione diversa e contrastante7. In pratica egli, capovolgendo la tesi del de Boüard, è giunto a concludere che la trasformazione della cancelleria pontificia fu la conseguenza e non la causa del fatto che gli scriniari si erano rivolti al settore della documentazione privata. E questo perché già nella seconda metà del IX secolo aveva preso le mosse il processo di fusione di scriniari e tabellioni in un’unica categoria. Processo che, secondo il Toubert, si sarebbe compiuto definitivamente nel corso del X secolo, quando però le carte romane appaiono ancora rogate da scrittori che si qualificano o come scriniarii sanctae Romanae ecclesiae o come tabelliones urbis Romae o, addirittura, come scriniarii et tabelliones. E mentre il de Boüard aveva praticamente ignorato i casi di scrittori che si qualificano nel contempo scriniari e tabellioni che si incontrano con una certa frequenza fino al primo quarantennio dell’XI secolo, il Toubert ha impostato la sua replica proprio su quei casi, prendendoli a testimonianza della avvenuta fusione dei due collegi (fusione che avrebbe determinato l’incertezza nelle titolature), senza però tener conto del fatto che, quando il fenomeno delle doppie titolature finisce, a Roma continuano ancora a rogare alcuni tabellioni, anche se essi sono ormai un numero molto esiguo. Ciò vuol dire che, se le doppie titolature avessero rappresentato, come voleva il Toubert, la prova della integrazione di scriniari e tabellioni in un’unica categoria di scriptores chartarum, la loro scomparsa dalle carte romane intorno alla metà del secolo XI avrebbe dovuto significare la conclusione di quel processo di fusione, mentre invece ancora fino alla fine del secolo XI, ossia ancora per sessant’anni, incontriamo scrittori che mantengono il vecchio titolo di tabellio urbis Romae e fanno precedere [p. 1115] la loro completio dallo stesso particolare signum usato dai tabellioni due secoli prima; in altre parole scrittori che non sembrano ancora essersi uniformati agli scriniari, né tanto meno appartenere alla stessa categoria.
Così si è deciso di riesaminare il problema con l’intento di vagliare accuratamente tutti i dati offerti dalla documentazione ed individuati a suo tempo dal de Boüard, aggiungendo a questi un altro elemento utile, ossia il fenomeno delle doppie titolature, fenomeno che il de Boüard non aveva tenuto in considerazione, ma che, opportunamente indagato, poteva contribuire a far luce sui modi ed i tempi con cui si era venuta evolvendo una situazione apparentemente tanto confusa.
Passando a considerare la scrittura bisogna innanzi tutto fare due precisazioni. La prima è questa: non sappiamo ancora se i tabellioni romani che rogavano nel periodo qui considerato fossero organizzati in corporazione e, se così, fino e che punto ed in quale misura questa fosse realmente efficiente, certamente però essi erano dotati di spirito corporativo, tant’è vero che sin dalla metà del X secolo, cioè da quando si cominciano ad avere documenti originali, li vediamo adoperare regolarmente una scrittura professionale, ossia un tipo di scrittura dotato di una sua specifica funzione e di caratteristiche peculiari che si distingueva dal contesto delle altre manifestazioni grafiche locali e che sicuramente veniva usata, si insegnava, si tramandava e si conservava in un ambiente chiuso e definito8 (Tav. I).
[p. 1116] La seconda considerazione che è necessario fare è che a Roma era usata contemporaneamente un’altra scrittura documentaria, anche questa con caratteristiche e funzioni ben definite: la curiale romana, adoperata nella cancelleria pontificia almeno dal VII secolo per la redazione di lettere e privilegi9 (Tav. II).
Ora, entrambe la tipizzazioni esercitarono l’una sull’altra una sorta di interazione legata sicuramente allo svolgimento delle vicende del notariato locale. Infatti, quando gli scrittori di cancelleria, gli scriniarii sanctae Romanae ecclesiae, iniziarono a redigere documenti privati, essi usarono la stessa scrittura che erano soliti adoperare in cancelleria, ossia la curiale romana, ma la necessità di adattarla alle diverse esigenze che evidentemente richiedevano le carte private (come ad esempio la necessità di scrivere più velocemente, da cui potrebbe essere derivata una più spiccata tendenza alla corsività, o quella, di carattere più squisitamente economico, di impiegare fogli di pergamena di dimensioni più ridotte, e quindi di ridurre il modulo di scrittura), li portò a modificarla parzialmente. Così la curiale romana perse in parte il suo carattere di rotondità e posatezza e si fece più minuta10 (Tav. III).
Anche la scrittura usata dai tabellioni però subì alcune modifiche, profondamente influenzata dalla curiale che ormai non era più relegata alle lettere ed ai privilegi pontifici ma era entrata, anzi aveva praticamente [p. 1117] invaso le carte private11 (Tav. IV). Ciononostante il panorama grafico documentario non si unificò fintanto che continuarono ad esservi carte redatte da scriniari e da tabellioni. Insomma per tutto il X e l’XI secolo permangono alcune varianti sostanziali tra la scrittura dei documenti degli scriniari e quella dei documenti tabellionali (Tav. V).
Queste varianti non si limitano solo all’aspetto generale e al ductus, come aveva a suo tempo visto Alain de Boüard, ma si avvertono proprio nella forma e nella struttura di alcune lettere, in particolare la q e la e, che nei documenti rogati dagli scriniari, e solo in questi, appaiono eseguite nelle stesse caratteristiche forme usate nella cancelleria pontificia. La particolarità di queste lettere sta nel tratteggio estremamente calligrafico che denuncia una formazione palesemente artificiosa. La q in special modo, uno degli elementi più tipici della curiale romana12 (composta da un grande occhiello posto in alto al di sopra del rigo, e da una coda ondulata che scende sul rigo senza oltrepassarlo se non di poco), ha un disegno che si potrebbe dire creato volutamente in cancelleria e non derivato da un’evoluzione naturale a cui si potesse giungere attraverso uno sviluppo spontaneo della corsiva nuova (Tav. VI).
Il mancato accoglimento da parte dei tabellioni di questa tipica [p. 1118] forma curiale13 rappresenta a mio avviso una testimonianza dell’effettiva persistenza a Roma, ancora nell’XI secolo, di un duplice sistema grafico documentario rappresentato da una parte dalla curiale romana, usata dagli scriniari per la redazione sia dei documenti pontifici che delle carte private, e dall’altra da una scrittura che potrebbe essere definita «tabellionale», la quale, benché ormai notevolmente influenzata dalla cancelleresca, manteneva ancora dei caratteri di differenziazione. A questo bisogna poi aggiungere che il ductus dei tabellioni rimase sempre sostanzialmente corsivo, ben diverso da quello posato e diritto degli scriniari. E mentre la grafia di questi ultimi fu sempre caratterizzata dall’uso di lettere dal corpo piccolo rispetto al forte prolungamento delle aste e dalla pronunciata rotondità degli occhielli, quella «tabellionale» si mantenne più serrata, fortemente inclinata verso destra, evidenziata da una maggiore angolosità delle singole lettere, le quali, a differenza di quelle usate dagli scriniari, hanno il corpo grande e aste piuttosto corte.
Procedendo nell’analisi dei caratteri estrinseci osservabili nelle carte romane e prima di passare all’analisi dei signa, si possono individuare due ulteriori elementi di differenziazione che concorrono a chiarire meglio l’esatto rapporto intercorrente tra tabellioni e scriniari. Questi ultimi, pur inseriti nel settore della documentazione privata, avevano certamente mantenuto costanti alcuni caratteri di tipizzazione che derivavano loro proprio dal tipo di istruzione ricevuta in cancelleria, e, se quello più evidente è senz’altro rappresentato dalla scrittura, è possibile individuarne altri che essi trasposero nei documenti privati con un passaggio del tutto naturale, dato che erano abituati ad impiegarli costantemente nello scrinium.
Il primo di questi elementi tipici soltanto degli scriniari è costituito dall’uso di caratteri allungati e di lettere capitali nella composizione del primo rigo del documento, comprendente di norma l’invocazione verbale e l’inizio della datazione. Questo si mostra palesemente come un elemento di derivazione cancelleresca, e [p. 1119] ricorda molto da vicino l’impostazione del protocollo dei privilegi pontifici (Tav. VII, a).
Il secondo elemento è costituito dall’uso di una particolare forma di a maiuscola posta sempre in posizioni ben precise, nel protocollo o nell’escatocollo, come lettera finale del numero dell’indizione nella datatio. Si tratta della stessa grande a semionciale largamente impiegata nei documenti pontifici coevi ed anche in questi in genere inserita in parti ben definite del documento (Tav. VII, b).
Quanto ho detto finora è servito ad evidenziare le numerose analogie che accomunano le carte redatte dagli scriniari con i documenti di cancelleria, ma soprattutto serve a mettere in luce quanto effettivamente gli atti rogati dai tabellioni si discostassero da entrambe quelle categorie di documenti. I tabellioni, infatti, si mostrano del tutto alieni dall’impiego di quei particolari, per così dire, decorativi, che ho appena illustrato: mai nei loro documenti compare il tipo di a semionciale che s’incontra invece così spesso nei documenti degli scriniari, né il primo rigo del documento è mai scritto in lettere capitali ed in caratteri allungati.
Sulla scorta di queste considerazioni passiamo ora ad analizzare il signum che, posto regolarmente davanti alla sottoscrizione dello scriba, rappresenta una nota costante di tutti i documenti di cui ci stiamo occupando. Qui i risultati dell’analisi condotta sulla documentazione originale sono forse i più evidenti. Tutti i documenti redatti da scrittori che si qualificano come tabelliones urbis Romae mantengono infatti sino alla fine dell’XI secolo (ossia fino all’ultima carta nella quale compare il titolo di tabellio) un particolare signum composto da un intricato gioco di segni al quale si è tentato più volte di dare un significato14 (Tav. VIII, a). Ma non è il significato intrinseco [p. 1120] di quel complesso intreccio di elementi grafici che ci interessa in questo momento, quanto piuttosto il fatto che esso costituisse un emblema professionale caratteristico di una categoria, dalla quale di conseguenza erano esclusi tutti quegli scrittori che non usavano apporre quel signum, ossia gli scriniarii sanctae Romanae ecclesiae. Ma se è vero, come si era accennato all’inizio, che lo strano signum oggetto di tante e svariate interpretazioni compare esclusivamente nei documenti tabellionali, è altrettanto vero (e questo direi a conferma dell’ipotesi iniziale dell’esistenza di due distinte categorie), che anche gli scriniari avevano foggiato da tempo un loro segno distintivo parimenti assurto a simbolo di categoria. E questo perché, passando dal mondo della documentazione pubblica a quello della documentazione privata, gli scriniari avevano compreso ed assimilato pienamente il tipo del documento tabellionale ed avevano anche intuito il valore del signum professionale; di conseguenza ne avevano elaborato uno proprio con il preciso intento di renderlo ugualmente caratteristico ma nello stesso tempo fondamentalmente diverso dall’altro, indice che essi non miravano a confondersi con il vecchio corpo di scriptores chartarum ma ad affiancarvisi (Tav. VIII, b).
Alla luce di quanto esposto quali prime conclusioni si possono trarre? Ho detto all’inizio come per poter parlare di fusione delle due categorie avremmo dovuto trovare un’identità nelle titolature e soprattutto un’omogenità nel carattere dei documenti, mentre al contrario ancora per tutto l’XI secolo è possibile riscontrare l’uso di due diverse qualifiche e, quel che più conta, la permanenza di due sistemi non ancora unificati e aderenti ciascuno ad un diverso gruppo di scrittori. Anche se nel corso di tre secoli (dal IX all’XI) i tabellioni sono sensibilmente diminuti e gli scriniari nel contempo notevolmente aumentati, è manifesto che la distinzione tra i due gruppi si mantiene e questo non è certo indice di una fusione quanto piuttosto lo specchio di un fenomeno ben più complesso e difficile da cogliere, del quale si possono sintetizzare i due momenti estremi: il primo alla metà o al più tardi alla fine del IX secolo vide gli scriniari, scrittori di cancelleria, intraprendere una nuova attività al fianco dei tabellioni, il secondo, [p. 1121] due secoli più tardi, il tramonto definitivo dei tabelliones urbis Romae e l’affermazione degli scriniari come unici redattori di atti privati.
Con molta probabilità il graduale rivolgersi degli scriniari verso la scrittura di atti privati fu dovuto ad un normale fenomeno di conversione verso un settore che era via via sempre più in grado di offrire maggiori possibilità di impiego, ma la piena riuscita in questo intento non potè dipendere solamente dalla loro volontà e capacità. All’inizio uno scriniario che redigeva un documento privato doveva apparire pur sempre come una eccezione, visto che ormai da secoli a Roma erano i tabellioni che si ponevano come scrittori di atti privati. Una delle circostanze che può aver contribuito a spianare la strada agli scrittori di cancelleria è il fatto che in quel momento chi a Roma si avvaleva maggiormente della documentazione scritta erano senza dubbio gli enti ecclesiastici ed è possibile che siano stati proprio gli abati o i loro procuratori ad iniziare a rivolgersi agli scriniari piuttosto che ai tabellioni o, meglio, che gli scriniari stessi abbiano iniziato proponendosi in alternativa ai tabellioni proprio ai monasteri ed alle chiese della città. Del resto è assai probabile che gli enti ecclesiastici si sentissero sufficientemente garantiti nel rivolgersi ad uno scriniario, ossia ad un ufficiale della cancelleria pontificia.
Superata così la fase iniziale non fu difficile per gli scriniari affermarsi nel settore privato; la loro qualifica e la loro superiore preparazione culturale15 costituivano ottimi punti a loro favore, in più essi, ponendosi nei confronti dell’atto scritto con una logica ed uno spirito dinamici, furono in breve tempo in grado di adeguarsi alle nuove esigenze [p. 1122] della documentazione che tra X e XI secolo si trovava al servizio di una rinata attività economica e commerciale e doveva quindi evolversi con questa. Essi trovarono dunque un terreno più che favorevole alla loro affermazione tanto da riuscire in breve non solo ad affiancarsi ai tabellioni ma a porsi come valida alternativa ad essi e ben presto a scavalcarli.
Si è detto che il passaggio degli scriniari al settore della documentazione privata si attuò in maniera graduale, ciò è vero almeno per un primo momento, ossia fino ai primi decenni dell’XI secolo, quando iniziarono a verificarsi nell’ambito della cancelleria pontificia i primi sostanziali mutamenti che videro prima la creazione di un nuovo ufficio di cancelleria, il palatium, e poi il progressivo sopravvento di quest’ultimo sul vecchio scrinium, finché con il pontificato di Pasquale II (1099-1118) quest’ultimo fu definitivamente posto in second’ordine e gli scriniari, di conseguenza, si trovarono ad essere completamente soppiantati nella loro originaria attività da altri scrittori. Per un lungo periodo di tempo quindi (dalla metà-fine del IX secolo ai primi decenni dell’XI) gli scriniarii sanctae Romanae ecclesiae continuarono ad operare sia per lo scrinium che per la redazione di documenti privati, come provano i risultati dei raffronti condotti su alcuni documenti pontifici e privati pressocché coevi che risultano in diversi casi redatti dai medesimi scrittori16. Ciò però non [p. 1123] significa necessariamente che tutti gli scriniarii sanctae Romanae ecclesiae che risultano attivi in questi secoli, e soprattutto nel X e nella prima metà dell’XI, fossero impiegati in entrambe le attività. Al contrario è presumibile (ed abbiamo molte ragioni per crederlo) che, dopo il primo approccio degli scrittori di cancelleria con il settore della documentazione privata e mano a mano che questo settore si dimostrava in grado di offrire maggiori possibilità di impiego (date dal graduale aumento del ricorso alla documentazione per stipulazioni di carattere privato che denota proprio i decenni a cavallo del Mille) il numero degli scrittori appartenenti alla categoria degli scriniarii sanctae Romanae ecclesiae sia andato sì aumentando progressivamente, ma solo in funzione del nuovo campo di attività che si veniva via via allargando. In altre parole, se ancora alla metà del secolo XI, come è stato possibile verificare, alcuni scriniari scrivono contemporaneamente documenti pontifici e carte private, già da allora ed ancor più con il progredire del tempo i nuovi membri che vengono ad accrescere le fila della categoria sono scrittori destinati sin dall’inizio a non operare mai in cancelleria, ma a essere direttamente avviati solo ed esclusivamente verso il settore della documentazione privata. E fu proprio questa nutrita schiera di scrittori che, invadendo letteralmente il campo dei tabellioni, determinò la definitiva scomparsa del vecchio corpo di scriptores chartarum.
Rimane però ancora da spiegare il fenomeno delle doppie titolature, i casi cioè di scrittori che nella completio dei loro documenti si qualificano contemporaneamente come scriniari e tabellioni17.
[p. 1124] Applicando ancora il metodo d’indagine usato per i tabellioni e gli scriniari si può intanto capire chi fossero in realtà questi scrittori che usavano qualifiche così vaghe. I documenti da essi redatti, infatti, presentano le stesse caratteristiche riscontrate nei documenti rogati dagli scriniari: identica appare la scrittura usata ed in modo particolare il disegno delle lettere q ed e, identico l’impiego di quegli elementi che ho poco fa definito cancellereschi: ossia l’uso di vergare il primo rigo in caratteri allungati e l’inserimento della grande a semionciale nella stessa posizione che occupa nei documenti degli scriniari; identico infine il signum, formato dall’intreccio dilatato e deformato delle lettere che compongono la prima parola della completio, la ego.
Non c’è dubbio dunque che si tratta di scriniari, anche questi appartenenti alla categoria degli scrittori di cancelleria e come tali dotati della stessa educazione grafica tanto da riversare meccanicamente negli atti privati parte di quegli elementi tipici delle litterae e dei privilegia. Resta da spiegare però il perché delle doppie titolature e per farlo è necessario fare un passo indietro e riportarci alla metà o fine del IX secolo, quando presumibilmente gli scriniari iniziarono a redigere documenti privati. Ho già detto che dovettero esservi una serie di circostanze favorevoli ad agevolare l’inserimento degli scriniari nel campo della documentazione privata, visto che essi avevano inizialmente tutt’altra funzione, ed è molto probabile che nel momento in cui iniziarono a redigere documenti privati sentirono, a volte, di dover giustificare a che titolo lo facessero, ed allora, poiché in effetti svolgevano le funzioni dei tabellioni, aggiunsero al loro titolo quello di tabellio. In altri termini il fatto di qualificarsi insieme scriniarius e tabellio nacque dalla necessità di vincere possibili resistenze da parte di un pubblico che, abituato ormai da tempo a rivolgersi ai tabellioni, poteva mostrarsi restio ad accogliere cambiamenti, e nacque anche, probabilmente, dall’esigenza dello scrittore di trovare, [p. 1125] in un momento di transizione, una qualifica più consona alla sua nuova attività, visto che con il titolo di scriniario operava o aveva operato in altro ambiente, quello di cancelleria, e con altre funzioni. Quel che comunque sembrerebbe più probabile è che gli scriniari sentirono la necessità di legittimare il loro nuovo ruolo di scrittori di documenti privati, comprendendo bene come la loro qualifica non avesse molto valore al di fuori del significato effettivo di impiegati dello scrinium e non bastasse quindi a garantire le parti.
Esemplificativo a questo proposito è il caso di uno scrittore che, pur essendo uno scriniario, si definisce tabellio urbis Romae. Il documento che questo sedicente tabellione redige per un importante monastero romano nell’anno 98518 ha tutte le caratteristiche proprie di quelli degli scriniari, tranne una. A differenza di tutti quelli che si definiscono con una doppia qualifica, i quali nella completio tracciano il signum consueto degli scriniari, Petrus (così si chiama questo scrittore) esegue una forma ibrida di signum, che sembra costituire la via di mezzo tra la sproporzionata ego disegnata dagli scriniari e l’intricato signum dei tabellioni (Tav. VIII, c). E’evidente che si tratta di un maldestro tentativo di imitare l’incomprensibile simbolo tabellionale, del quale Petrus riesce a riprodurre soltanto i tratti iniziali (una serie di linee verticali ondulate e parallele), ma poi conclude con un intreccio dove si individuano bene le lettere della ego, segno a lui certamente più congeniale. Lo scrittore insomma non è stato in grado di riprodurre l’intero signum tabellionale, forse perché non riusciva a comprenderne il significato, per cui ha finito per tracciare, anche se in maniera più spigolosa, il signum degli scriniari.
Per un periodo di tempo piuttosto lungo, dunque, gli scriniari, ancora non del tutto sicuri della propria posizione, si servirono in molti casi del nome dei tabellioni, titolo che sfruttarono nel tentativo di meglio e con più facilità inserirsi nel settore di quelli. Il fatto che il fenomeno delle doppie titolature, raggiunta la punta massima tra la fine del IX secolo e quella del X, vada gradualmente scemando con [p. 1126] gli inizi dell’XI per scomparire definitivamente con il primo quarantennio del secolo, dimostra a mio avviso che gli scriniari si sentivano ormai sicuri della propria affermazione e padroni del campo. Ed infatti di lì a cinquant’anni si assite alla definitiva scomparsa del titolo di tabellio, diventato ormai da tempo sempre più raro.
Alla fine dell’XI secolo è rimasta una sola categoria di scrittori, quella degli scriniari, che ha soppiantato definitivamente i vecchi redattori di documenti. Non c’è stata fusione dei due gruppi di scrittori, bensì il sopravvento di un gruppo, gli scriniari, a discapito di un altro, i tabellioni, i quali fino in ultimo, ridotti a pochissimi membri e senza probabilmente più l’apporto di forze nuove, destinati insomma ad estinguersi, continuarono a mantenere vivi i segni destintivi, se non della propria categoria intesa in senso stretto, quanto meno del proprio gruppo professionale.
Un’ipotesi ancora tutta da verificare e studiare è quella del riflesso che la vicenda romana può aver esercitato su altre città e situazioni limitrofe. Il caso di Terracina studiato da Attilio De Luca19 è quanto meno emblematico e le analogie con la situazione romana sono molte: anche qui infatti operano due categorie di rogatari, tabelliones e scriniarii, i cui esponenti però, a differenza di quanto accade per Roma, specificano sempre il loro status sociale, vir honestus per i tabellioni e venerabilis o indignus presbiter per gli scriniari20; anche qui, come a Roma, le vicende del notariato locale si evolvono fino al definitivo sopravvento della categoria degli scriniari. Casi analoghi, ma ancora, come dicevo, da studiare, sembrano verificarsi in altre località più o meno distanti da Roma. A Nord Sutri e Nepi, ad Est Tivoli, a Sud Anagni e Veroli, tutte città vescovili dove [p. 1127] sembra ripetersi, almeno formalmente il dualismo tabelliones e scriniarii. Per fare alcuni esempi: a Sutri dalla metà del X secolo alla fine dell’XI rogano in genere scrittori che si qualificano come tribunus et tabellio o iudex et tabellio, ma negli anni 988, 990 e 992 abbiamo due scrittori che sottoscrivono come scriniarius et tabellio civitatis Sutrine21; anche a Nepi i rogatari si definiscono per lo più nobilis vir et tabellio, ma un documento del 996 appare redatto da un Petrus nobilis vir scriniarius et tabellio civitatis Nepesine22. A Tivoli la situazione che si registra tra X e XI secolo sembrerebbe essere più simile a quella romana: oltre a scrittori che si qualificano tabellio civitatis Tiburtine, già dal 924 abbiamo documenti rogati da scriniarii et tabelliones civitatis o urbis Tiburtine, da urbis Tiburtine scriniarii sancte Romane et apostolice ecclesie nonché da viri et scriniarii sancte Tiburtine ecclesie23. Ugualmente ad Anagni e Veroli (città per le quali disponiamo di una documentazione molto ricca e di un discreto numero di documenti privati a partire della metà del X secolo24) appaiono alternarsi scrittori che usano qualifiche diverse o composite: accanto a tabelliones o scriniarii civitatis Anagnine o Berulane figurano scriniarii et tabelliones o rogatari che, come a Roma, si definiscono scriniarius nella completio e tabellio [p. 1128] nella rogatio e viceversa, o compaiono, addirittura, scriniarii sancte Verulane ecclesie.
Se si tratti dello sviluppo di situazioni reali (dove, in ogni caso, il riflesso di Roma può essere stato determinante) o di pura e semplice imitazione di titoli, se si possa cioè parlare di avvicendamento in senso proprio come a Roma e a Terracina di due diverse categorie di rogatari o soltanto dell’affiancarsi e sostituirsi del nuovo titolo di scriniarius a quello più vecchio di tabellio sulla scia di quanto avveniva a Roma e per pura e semplice suggestione, non è ancora possibile definirlo con precisione, né sarebbe questa la sede adatta per farlo. Certo è che allargare il campo d’indagine anche al notariato periferico e seguirne le rispettive linee evolutive, consentirà di verificare in che misura ed entro quali limiti Roma esercitò la sua egemonia sulle città limitrofe e, forse, di chiarire meglio l’effettivo peso che il gruppo dei tabellioni ha avuto in tutta la vicenda.
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