[p. 1009] Documento e formulari Bolognesi da Irnerio alla «Collectio contractuum» di Rolandino
Una antica tradizione scolastica bolognese recepita da Odofredo attorno alla metà del secolo XIII, e prima ancora di Odofredo, da Accursio nella Glossa Magna (II-III decennio del secolo XIII), attribuisce ad Irnerio il rinnovo della formula dell’enfiteusi ed ancora gli ascrive la redazione del primo formulario notarile.
Commentando infatti la legge iubemus compresa nel libro primo del Codice, al titolo secondo «De sacrosanctis ecclesiis», Odofredo ricorda che era stato appunto sulla base di questa legge che Irnerio aveva sostituito l’antica formula dell’enfiteusi «Peto a te» con la più recente «Petitionibus emphyteuticariis annuendo», formula poi caduta in desuetudine ma che tuttavia era ancora possibile ritrovare, ai tempi suoi, in antiquo formulario, un formulario così chiamato appunto perché i notai maggiormente aderenti alle tradizioni del passato (rudes tabelliones) tale formula ancora persistevano ad impiegare attorno alla metà del secolo XIII; lo stesso Irnerio, aggiunge fra l’altro Odofredo, era stato il primo che aveva affrontato quel commento alla legge iubemus dal quale aveva ricavato la modifica della formula dell’enfiteusi, ed a lui la medesima tradizione attribuiva la redazione del primo formulario notarile.
[p. 1010] Per comodità di esposizione riporto qui di seguito uno stralcio del passo di Odofredo compreso appunto nel suo commento al Codice, libro I, titolo II, legge iubemus (legge 14), un passo peraltro largamente noto in quanto si tratta di una delle pochissime fonti relative alla figura ed all’opera di Irnerio; la lingua, inutile dirlo1, è quella abituale del maestro, un latino piuttosto approssimativo, frammisto di espressioni volgari, facile tuttavia, non certo aspro e denso come quello di Azzone, colorito, accattivante nei confronti degli studenti — che vengono chiamati Domini, Segnori —, comunque intelligibile a tutti, da qualunque parte d’Europa essi provenissero, una lingua inoltre che in questo passo specifico convoglia in sé la forza della tradizione quasi assumendo, nella esposizione dei dati, toni e sfumature di una antica favola appresa in gioventù, ed ora raccontata, dal maestro già anziano, ai giovanissimi:
«Or Segnori, hic unum notate optimum, quod invenietis in omnibus antiquis instrumentis enphyteoticariis: “(Petitionibus enphyteoticariis) annuentes nos prior, vel oeconomus, talis ecclesie cum consensu totius canonice in persona tua et successorum tuorum concedimus talem rem in enphyteosin”; que forma est exacta ex littera ista, et hoc modo etiam in antiquo formulario invenitur, et ideo vocatur formularium quia secundum illam forman scribunt rudes tabelliones contractus. Et debetis scire, vos Domini, sicut nos fuimus instructi a nostris maioribus, quod dominus Yrnerius fuit primus qui fuit ausus dirigere cor suum ad legem istam. Nam dominus Yrnerius erat magister in artibus… et studuit per se sicut potuit, postea cepit docere in iure civili, et ipse fecit primum formularium, id est librum omnium instrumentorum, et scripsit instrumentum enphyteoticum, et hic collegit qualiter contractus anphyteotici habeant celebrari [textu: “inter utrosque convenerit”, id est] inter [p. 1011] petentem rem ecclesie in enphyteosin et oeconomum [textu: “statuatur”].»2.
Si diceva che il tono e le espressioni usate da Odofredo quasi fanno pensare al racconto di una antica favola. I dati esposti, tuttavia, sono concreti, estremamente concreti, e sono gli stessi che ritroviamo, già desunti trenta anni prima dalla tradizione del secolo XII, nella glossa accursiana allo stesso passo del Codice al quale si riferisce anche Odofredo, ivi peraltro espressi in forma assai più densa e meno verbosa:
«Ex hoc sumpsit Irnerius quod posuit in formulario tabellionum, in contractibus emphyteusis; dicunt enim sic: “Emphyteuticariis” scilicet “petitionibus”, et cetera.»3.
Inoltre, e questo è quello che soprattutto conta, tali dati trovano piena conferma nella documentazione bolognese dei primi secoli; a questo punto, tuttavia, il nostro campo di osservazione si allarga, e quindi, per necessità di cose e per maggiore chiarezza, occorrerà procedere con un certo ordine.
In primo luogo il rinnovo della formula dell’enfiteusi, con il passaggio dalla formula più antica «Peto a te» alla più recente «Petitionibus emphyteuticariis annuendo», avviene in effetti nel secondo decennio del secolo XII, e più precisamente nel 1116. I notai che introducono questa innovazione sono Angelo e Bonando, il primo in un documento del 21 marzo 11164 ed il secondo in altro documento [p. 1012] del 4 settembre di quello stesso anno5. Angelo e Bonando sono ugualmente i due notai che figurano a fianco di Irnerio nel documento del 15 novembre 1116 già edito sul finire del secolo XVIII da Ludovico Vittorio Savioli6, e sono gli stessi che introducono, in realtà in epoca piuttosto tarda, la minuscola carolina nella documentazione bolognese.
Contrariamente a quanto si potrebbe credere, la documentazione bolognese dei primi tempi non è né molto antica né particolarmente interessante rispetto a quella dei centri limitrofi7. Originariamente compresa nell’ambito del territorio ravennate, la città viene occupata e semidistrutta da Liutprando nella prima metà secolo VIII, e da quel momento le sue vicende sono legate a quelle generali del Regnum Italiae. Il primo documento superstite è del 922, vergato in una corsiva nuova piuttosto trasandata che continua senza particolari mutamenti fino alla metà circa del secolo XI.
E’ solo con la seconda metà del secolo che si assiste al rapido passaggio dalla corsiva nuova alla minuscola corsiva: il camino che altrove era stato percorso nel giro di qualche secolo, qui viene compiuto, pur con notevole ritardo ma in forme non prive di una loro eleganza, nel giro di qualche decennio. Fino dal VII-VIII decennio del secolo XI nel complesso della documentazione superstite possono essere chiaramente individuati tre diversi orientamenti, quasi diremmo tre scuole per la costanza delle forme e per la regolarità con la quale, in ciascuno di questi filoni, l’opera dell’uno continua in quella dell’altro che dal predecessore eredita materialmente le rogazioni, [p. 1013] le note dorsali, i dicta non svolti in mundum8. Già altrove, sul piano paleografico, sono state indicate le caratteristiche e le vicende di ciascuno di questi orientamenti9; volendo ora caratterizzarli in modo più sintetico e colorito, potremmo dire che il primo appare decisamente laico, il secondo più rigidamente tabellionale, il terzo infine decisamente curiale, raccolto intorno al locale vescovado e palesemente conservatore di forme che ricordano l’antica dipendenza di questo dal grande centro altomedievale di Ravenna.
E’ ovvio che queste novità corrispondono al rapido confluire in Bologna di influenze culturali molteplici e diverse, influenze e suggestioni spesso assai remote nel tempo e nello spazio, ma rivissute, almeno nei primi tempi, in una quieta intimità che risulterà particolarmente creativa. Qui non è il caso di affacciare nuove ipotesi sulle origini dello Studio bolognese: è comunque certo che Studio bolognese, rinascita del diritto romano, reinterpretazione ed affermazione del documento privato sono aspetti di una medesima, luminosa realtà alle cui origini stanno componenti molteplici e diversissime, ivi compresi, tanto per esemplificare per absurdum, i rabbiosi capitoli di Ottone I del settimo decennio del secolo X che rappresentano la negazione più dura del diritto privato e della documentazione scritta nei confronti della tradizione germanica e del duello giudiziale.
Dei tre orientamenti, diciamo pure delle tre scuole di cui si è dato cenno, agli albori del secolo XII i due primi sfociano rispettivamente in Angelo10 ed in Bonando11, mentre il terzo, quello maggiormente [p. 1014] aderente all’antica tradizione ravennate, di fronte alle molte novità apportate dai movimenti antagonisti inasprisce ulteriormente le sue caratteristiche, chiuso in se stesso e raccolto intorno alla figura di «Iohannes clericus primicerius et notarius Sancte Bononiensis Ecclesie»12; sarà solo col IV-V decennio del secolo, evidentemente in connessione all’opera svolta da Graziano in seno a questo movimento, che esso si esaurirà, o meglio, si inserirà nel grande filone della nuova cultura bolognese.
Angelo e Bonando, come si diceva, sono i primi che introducono la minuscola carolina nella documentazione bolognese: le suggestioni librarie sono evidenti — la sottoscrizione di Angelo è la prima delle molte sottoscrizioni metriche bolognesi del secolo XII13 —, ma è anche evidente la continuità con i primi movimenti culturali della seconda metà del secolo precedente, cosa di cui anche in questo caso dà sicura testimonianza l’ereditarietà dei rogiti dai due filoni da cui essi rispettivamente provengono14.
D’altra parte, per la tipologia grafica come per il formulario, non si tratta di imitazione di determinati modelli più o meno prestabiliti, ma di maturazione di un processo che viene incrementato dalla meditazione di determinate suggestioni, spesso come dicevo assai lontane nel tempo e nello spazio15, che vengono rivissute con insolita freschezza ed assumono l’abito di assoluta novità.
[p. 1015] Sul piano formulare, come sul piano grafico, nulla viene accettato che non sia intero. Ogni espressione che non abbia un suo preciso retroterra culturale e che non abbia la specifica funzione di esprimere con precisione qualcosa di essenziale viene bandita dal documento, che così assume un aspetto estremamente semplice ed insolitamente stringato. Gli stessi orizzonti dell’intero panorama documentario, in apparenza così estesi nell’alto medioevo e tali in se medesimi che tante preoccupazioni ancora daranno a tanti illustri studiosi recenti e recentissimi impegnati a dipanare le fila di una matassa forse inestricabile, ora vengono circoscritti in un quadrilatero documentario che non ammette, almeno nei primi tempi, alcuna deroga: compra-venta, enfiteusi, donazione, testamento.
In ultima analisi, anche senza fare ricorso come si è fatto ad una antica tradizione, ad Accursio, ad Odofredo, ad un certo punto bisogna ammettere che il nuovo modo di affrontare le formule ed i cardini imposti all’intero panorama documentario appaiono in effetti troppo rigidi, troppo precisi, troppo legati alle suggestioni del momento, troppo densi di contenuto e nello stesso tempo troppo facilmente criticabili per non recare palesemente l’impronta di una unica mente coordinatrice.
Il furore di alleggerire la formula a volte arriva ad eccessi tecnicamente mostruosi, quali l’eliminazione del prezzo nella compravendita operata dai luoghi religiosi, indicazione evidentemente ritenuta superflua data la esistenza e la materiale consegna alla parte interessata del titolo che dava la certezza della proprietà. Ancora più grave, e gravida di conseguenze per tutto il secolo XII e per il lungo e laborioso cammino nel quale va inoltrandosi la scuola, è la quadripartizione teorica dell’intera materia contrattuale nei quattro istrumenti basilari di cui si è detto.
Nel quinto decennio del secolo XIII, a poco meno di un secolo e mezzo di lontananza nel tempo da quel remoto 1116 che registra il primo diploma imperiale per la città di Bologna16, che segna l’inizio [p. 1016] della sua nuova storia17, che vede la comparsa della formula irneriana dell’enfiteusi, che imposta e impone quella lineare ma rigida teorica dei quattro istrumenti che per tutto un secolo graverà pesantemente sulla scuola, la reazione che fa capo alle correnti di studio più recenti e vive assumerà, nei confronti del passato, atteggiamenti, posizioni e toni quanto mai duri e polemici.
Di questo, dà chiara testimonianza la glossa nugis sophisticis, apposta da Salatiele nell’esordio alla prima redazione della sua Ars Notarie18. Siamo nel 1242 e Salatiele, battendosi per la riforma dell’esame comunale di notariato, così si scaglia contro gli ultimi seguaci dell’antica teorica dei quattro istrumenti, evidentemente dei superstiti ai tempi suoi, tali tuttavia che ancora godevano di un certo credito, dato che il maestro si avventa contro di essi con una acredine così feroce:
«Hoc refertur ad illos qui dum corticem .iiij. instrumentorum cordetenus didicerunt sicut adiscunt femine “Pater noster” hanelant ad examinationem et hoc faciunt nugis falsorum amicorum decepti qui artem notarie in .iiij. instrumentis consistere dicunt; sed dicet aliquis “si nesciunt quare approbantur?” Respondeo: quia non a magistro nec a iudice, sed a falso amico corrupto vel prece vel forte pretio commendantur, qui clamat “Pulcre !Bene dixit!”; nam dicit falsus amicus “Cur ego amicum offendam in nugis? Amicum in nugis offendere me?”; qui, nugis non consentiendo, eos redarguit, unde dicit.»
Assai diversa, come vedremo, sarà la valutazione che verrà fornita da Rolandino, attorno alla metà di quello stesso secolo XIII, sulla antica teorica dei maestri del passato. Ritornando a questa, comunque, sarà bene fin da ora rilevare che si tratta dei primi passi di [p. 1017] una dottrina in se medesima nuova, una dottrina che si viene formando su antichi testi legislativi visti alla luce delle condizioni di vita di un centro che almeno per il momento è ancora assai modesto. Se infatti consideriamo i cardini della teorica dei quattro istrumenti (compra-vendita, enfiteusi, donazione, testamento) è chiaro che essi sembrano escludere l’intero settore della locazione-conduzione, o per lo meno tendono ad identificarlo con quel quid medium che è l’enfiteusi nel momento di passaggio fra l’alto ed il più recente medioevo; ed è ancora sull’enfiteusi e sulle meditazioni irneriane intorno alle origini, alle vicende ed alla evoluzione di questo rapporto giuridico che la tradizione di cui si è detto ci richiama, non senza ragioni intime, per entrare nello spirito e per impadronirci della chiave di questa antica teorica, fondata sulla attenta osservazione di un ambiente che ancora per tanta parte vede regolato il regime delle cose, degli animali, delle persone medesime sulla base di questa forma contrattuale.
E’ noto lo straordinario incremento dell’ambito dell’enfiteusi per tutto il corso dell’alto medioevo. Concepito in origine per regolamentare il regime dei luoghi religiosi, esso presto si estende all’ambito civile, si inserisce e si fonde con il regime feudale, diventa formidabile strumento generalizzato di potere su cose e persone. Già Zenone, generalizzandone l’uso e cercando di regolamentarlo e di definirne la natura giuridica, ne aveva rilevato la posizione intermedia fra compra-vendita e locazione-conduzione: «Ius emphyteuticarium neque conductionis neque alienationis esse titulis addicendum, sed hoc ius tertium sit constitutum…»19. Tuttavia, più che nei confronti della compra-vendita, lo straordinario incremento di questo tertium ius avviene indubbiamente a scapito della locazione-conduzione, il cui ambito viene a ritrovarsi progressivamente svuotato di contenuto.
E’ per questo che la più antica teorica bolognese del documento privato, dovendo modellarsi sulla realtà del suo stesso territorio fra XI e XII secolo, sostituisce in tronco l’enfiteusi all’intero settore della locazione-conduzione. Vero è che qualcosa va mutando, tuttavia: [p. 1018] negli ultimi tempi, e nella realtà dei fatti, anche in territorio bolognese le persone, attirate da un centro urbano prima assai limitato ma ora in rapido incremento, anche se giuridicamente ancora vincolate alla terra, si vanno muovendo e si comportano con uno spirito di libertà prima sconoscinto. E’ in questo senso che deve essere inteso il valore innovativo della formula irneriana dell’enfiteusi che omette il riporto integrale del libellus precum («Peto a te»), simbolo palese di sudditanza dell’enfiteuta nei confronti del dominus, e si limita a darne un accenno assai succinto nell’esordio («Petitionibus emphyteuticariis annuendo»), quasi a ricordo di un antico rito del passato che progressivamente si avvia a trasformarsi in un reciproco accordo, in un patto bilaterale quale risulterà pienamente, nello stato delle cose ed attraverso i successivi adattamenti della formula, nella vita e nella dottrina della metà del secolo XIII.
Non è quindi senza specifica ragione il fatto che l’antica glossa irneriana, e di conseguenza le citate glosse di Accursio e di Odofredo, si applicano in modo esplicito alla espressione inter utrosque convenerit della legge iubemus. Ed ancora merita di essere segnalato in modo singolare il fatto che Irnerio, intendendo palesemente ridimensionare l’antico corso dell’enfiteusi, anziché applicarsi al titolo LXVI del libro quarto del Codice, che comprende la normativa generale zenoniana De emphyteutico iure, preferisce applicare la sua meditazione alla citata legge iubemus del libro primo del Codice20, una costituzione [p. 1019] emanata da Leone ed Antemio nel 470 a tutela dei beni dei luoghi religiosi la quale pone con estrema precisione, pure non nominandolo come tale, le basi di quel regime enfiteutico che solo alcuni anni più tardi riceverà un nome e verrà regolamentato e generalizzato dalla normativa zenoniana.
Così, identificata la prima fonte normativa di questo tertium ius e lo stato del tutto particolare del suo beneficiario originale, che è il luogo religioso, già dal 1116 si avvia quel processo che nel 1255, almeno formalmente, apparirà concluso quando Rolandino, nella sua Collectio contractuum, relegherà l’enfiteusi in appendice alla compra-vendita, in un apposito, specifico Tractatus rerum ecclesiasticarum21, mentre il Comune, giusto due anni dopo, con la famosa [p. 1020] costituzione Paradisum procederà ai solenni atti formali del riscatto e della liberazione dei servi della gleba22.
Molte cose intercorrono tuttavia fra il 1116 e la metà del secolo XIII. Quella teorica dei quattro istrumenti che all’alba del secolo XII appare rivelatrice di una situazione di fatto mai prima adeguatamente meditata, sotto certi aspetti luminosamente consapevole di una determinata realtà in rapida evoluzione, sotto altri chiusa e vincolata dalla rigidità stessa dei suoi schemi, nel corso del secolo XII tende gradualmente a trasformarsi in una camicia di Nesso che sembra a lungo negare, sul piano formulare, ogni progresso di vita e di dottrina.
D’altra parte la tradizione stessa raccolta da Odofredo, che ricollega ad Irnerio la redazione del primo formulario notarile, dovette pesare non poco in questo processo di conservazione del passato. La documentazione bolognese del secolo XII, nel suo complesso, testimonia infatti da un lato la persistente fissità delle formule negli schemi della nota teorica, e dall’altro, specie in casi singoli, offre documento dei disperati tentativi di infrangere la rigidità medesimo di questi schemi.
Lo specchio più evidente di questa duplicità di aspetti, tuttavia, ci è senza dubbio fornito da quel formularium anticuum di cui dà cenno anche Odofredo nel passo riportato all’inizìo, ora noto comunemente come «Pseudoirneriano», alias quel formulario che venne pubblicato nel 1888, con attribuzione ad Irnerio e sotto il titolo di Formularium tabellionum, da Giovanni Battista Palmieri nel primo volume della Bibliotheca Iuridica Medii Aevi di Augusto Gaudenzi23, quello che veramente è il primo formulario bolognese che ci è pervenuto nella sua integrità e nella sua veste originale.
[p. 1021] Si tratta senza dubbio di un testo dei primi anni del secolo XIII24. Benché la primitiva attribuzione ad Irnerio sia presto caduta sotto gli attacchi della critica25, è tuttavia innegabile che molte cose, oltre la formula dell’enfiteusi, ancora lo legano all’epoca di Irnerio, massime le strutture della teorica e la genesi stessa dell’opera medesima.
Concepita in origine in quattro libri, in osservanza dei tradizionali principi della teorica dei quattro istrumenti, essa venne infatti assai presto rielaborata — evidentemente sotto l’incalzare delle formule che non potevano più essere contenute in questo troppo rigido quadrilatero documentario —, operando una inversione fra terzo (donazione) e quarto (testamento) termine di questa teorica, nella speranza26, in verità assai debole e scarsamente fondata, che il porre la donazione all’ultimo posto potesse dare più facile adito ad aggiunte di quanto non ne poteva fornire il testamento, tematica in se medesima palesemente chiusa e conclusiva. Quando anche questo accorgimento, come del resto era facilmente prevedibile, si rivelò inadeguato, solo allora, in un terzo ed ultimo momento, il tormentato autore di questo testo si decise, mantenendo peraltro lo spostamento e le aggiunte già operate nel secondo momento27, ad aggiungere un [p. 1022] quinto libro che venne detto, con terminologia assai vaga, pactorum et cautionum et aliorum contractuum extraordinariorum.
D’altra parte anche quest’ultimo passo, evidentemente per le difficoltà intrinseche presentate dalla materia da trattare, non venne portato fino alle sue estreme conseguenze: il formulario infatti si arresta, così nelle edizione come nell’unico codice magliabechiano che ce lo ha tramandato, come pure, ritengo, nell’originale medesimo dell’opera, a metà strada della locazione-conduzione, e precisamente di fronte al problema della locazione d’opera, che era la materia più ardua da trattare, il vero punctum dolens dell’intera problematica, così nella vita come in quello specchio ed in quella testimonianza della vita che deve essere la realtà documentaria.
In compenso, evidentemente per non lasciare immotivata la rottura degli schemi del passato, nel proemio venne aggiunta una immagine evidentemente mutuata dalla scuola di retorica, «quum sicuti celi stellas innumerabiles esse cognovimus, ita quidem non possunt contractuum diversitates et varietates dinumerari neque perscrutari», espressione in se medesima luminosa fin che si vuole, ma tale tuttavia che ammetteva in modo esplicito non dico l’incapacità, ma certo la impossibilità, almeno per il momento, di sostituire alle strutture del passato nuove strutture che corrispondessero in modo adeguato alla logica ed alla nuova realtà dei tempi.
Comunque il cosiddetto formulario pseudoirneriano, con la sua genesi estremamente tormentata e con i molti problemi che lasciava non risolti, rimane come chiara e viva testimonianza del lungo persistere della teorica dei quattro istrumenti ed insieme della profonda crisi in cui versava questa teorica ormai centenaria all’alba del nuovo secolo.
Del resto quella conciliazione fra il vecchio e il nuovo che non era riuscita all’autore di questo formulario, riuscì invece poco dopo, ed in modo tecnicamente ineccepibile, a Ranieri da Perugia, un giovane maestro che da non molto aveva preso ad insegnare a Bologna in Porta Nuova, vicino alle scuole del grande Azzone.
Il primo formulario di Ranieri, il Liber formularius per essere più [p. 1023] precisi28, esce infatti nel 1216, esattamente ad un secolo di distanza da quel famoso 1116 che si è indicato come punto di partenza di quella straordinaria vicenda del documento privato bolognese di cui stiamo cercando di seguire le tappe principali. E’ invece passato poco più di un decennio dalla uscita del formulario pseudoirneriano, cosa questa che meglio di ogni altra ci dà la misura della rapidissima evoluzione della scuola nella prima metà del secolo XIII.
Non è senza ragione che si è messo in rilievo come l’insegnamento di Ranieri si svolga in Porta Nuova, vicino alle scuole del grande Azzone. Si tratta di vicinanza topografica e insieme di vicinanza intima. E’ appunto dall’insegnamento di Azzone che Ranieri deriva quella distinzione fra dominio diretto e dominio utile29 che sarà fondamentale per le strutture del suo primo formulario. D’altra parte già l’autore del formulario pseudoirneriano aveva giocato, nel tentativo di arrivare ad una soluzione, sulla possibilità di spostamento dei quattro cardini della teorica dei quattro instrumenti, cosa che già era stata fatta e che pure si poteva fare, solo in modo diverso, sotto una diversa angolazione.
E’ così che Ranieri, poggiando su un principio derivatogli da Azzone ed impiegando un accorgimento già utilizzato, sia pure in via sperimentale, dallo pseudoirneriano, redistribuisce l’intero panorama documentario dividendolo in due libri, il primo dedicato al dominio diretto ed il secondo al dominio utile. Nel primo colloca tre dei capisaldi dell’antica teorica dei quattro istrumenti, e segnatamente il primo (compra-vendita), il terzo (donazione) ed il quarto (testamento); nel secondo ed ultimo libro colloca invece il secondo termine, cioè l’enfiteusi, cui fa seguire, come del resto era nella logica e nella natura stessa delle cose, le varie forme contrattuali pertinenti al [p. 1024] dominio utile, e segnatamente la locazione-conduzione considerata nella sua vasta complessità e nella sua triplice veste: locazione di cose, locazione di animali, locazione d’opera.
La chiave che ci introduce nelle strutture tecniche di questo testo è chiaramente evidenziata dall’explicit del primo libro e dall’incipit del libro secondo:
«Instrumentorum dationis vel refutationis seu remissionis directi dominii explicit huius voluminis prima pars. Incipit secunda et ultima, de concessione utilis dominii in emphyteosim vel in feudum et de solis possessionibus varie locandis, et de aliis pluribus instrumentis»30.
Come si vede Ranieri, ristrutturando siffattamente l’intera materia contrattuale, rientrava perfettamente nell’ambito della teorica dei quattro istrumenti superando senza apparenti difficoltà i molti contrasti che da tempo si agitavano nell’ambito della scuola. Il tutto, inoltre, era incastonato in una teorica lineare ma già compiutamente delineata, con aperture palesi verso quella materia processuale che il notaio da tempo era quotidianamente chiamato a gestire nell’interesse del Comune o di qualsivoglia autorità pubblica31.
Queste caratteristiche, unite ad una singolare precisione tecnica che strumentava al servizio della pratica l’esperienza oramai secolare dello Studio nell’ambito del diritto civile peraltro senza ignorare i residui dei preesistenti diritti, longobardo e feudale32, giustificano il singolare successo del Liber formularius. Attorno al giovane maestro perugino presto si riuniscono notai, giudici e studenti che provengono da ogni parte d’Italia e d’Europa. Lo stesso Comune di Bologna, [p. 1025] sempre attento alle vicende dello Studio e giusto allora impegnato nella fondazione delle sue nuove strutture politico-amministrative, preoccupato per la conservazione dei proprî avanzi documentarî — la stessa preoccupazione, in ultima analisi, che nel contempo sollecita lo Studio nei confronti del patrimonio culturale del secolo XII determinando l’opera accursiana —, affida la redazione del suo primo cartulario, quello che sarà il Registro Grosso del Comune di Bologna33, al giovane maestro perugino che recentemente aveva fornito, con il suo primo formulario, valida prova di dottrina e nel contempo di apertura verso le esigenze del momento, teorizzando la capacità del comune di eleggere notai a fianco delle due massime autorità, temporale e spirituale, cui la tradizione fino ad allora aveva riservato l’esclusiva competenza34.
Questo fatto, che pone a disposizione di Ranieri l’intera documentazione comunale dal 1116 ai tempi suoi, è una esperienza nuova ed insolita, del tutto eccezionale per un uomo già incline, per professione e per temperamento, a meditare sulla natura dei rapporti umani. Attorno a Ranieri ed al gruppo di notai che collaborano con lui, dal 1219 a 1223, alla redazione del Registro Grosso, in un ambiente cosmopolita quale quello dello Studio nel quale si vanno rapidamente diffondendo i principî dell’aristotelismo, sorge un dialogo prima inesistente, una discussione sempre più concitata che si riflette sulla scuola, che rinnova la scuola.
I principî della teorica dei quattro instrumenti, legati almeno in origine ad una cosmogonia di colorito neoplatonico ed ancora vincolanti per il Liber formularius, presto sono travalicati. Nel 1219 viene istituito il Liber notariorum comunis Bononie35: in esso, sotto l’anno [p. 1026] 1221, s’incontra per la prima volta il nome di una nuova disciplina, ars notariae. Questo è anche il titolo di un’opera nuova36, che si apre nel nome di Aristotele37 e che si proclama nata, anzi, innata per ispirazione divina nella mente del suo autore applicata alla meditazione sulle arti liberali e meccaniche38. L’autore è il maestro dei giovani, di quella nuova generazione da cui usciranno i moderni dei quali ci parla Rolandino39: «auctor quippe huius operis sum Rainerius Peruxinus, dictus magister40, civis Bononiensis, notarius atque iudex.»41
Opera e personalità dell’autore appaiono trasformate rispetto al suo primo formulario. L’esile stelo della teorica, che prima si faceva luce con stento fra gli agglomerati degli istrumenti, appare ora trasformato in un tronco già robusto che presto si divide, sempre unico come la Santa Trinità da cui la tripartizione si ispira, in tre grandi rami corrispondenti a quanto gli uomini fanno paciscendo, litigando, disponendo42.
[p. 1027] Oggetto della indagine, della meditazione, non è più l’instrumentum come fine a se stesso, realtà estrinseca che deve essere esaminata obbiettivamente nei suoi diversi momenti formativi, stella perduta fra le mille nel cielo del diritto, ma è la persona umana nei diversi momenti della vita, quando acquisisce un diritto, quando lo difende, quando lo trasmette con le sue ultime volontà.
Tale è il compito della nuova arte: accompagnare l’uomo in questi passi della vita, che è quanto il notaio aveva sempre fatto per il passato, e quindi nulla di nuovo se non la raggiunta autocoscienza di una antica prassi che ora figge lo sguardo nelle ragioni e nei fini di una secolare e quotidiana abutudine di vita, e che tanto mira ad estendersi, in un quid che in se medesimo riflette la problematica tutta della vita, quanto si estende l’attività contrattuale, litigiosa e dispositiva dell’uomo.
L’esegesi dei principî del diritto, per quest’arte, non è e non può essere il fine, ma è e deve essere il mezzo, un mezzo che si deve conoscere con sicurezza poiché sarà per esso che si potranno attingere quei fini che si incarnano nell’attività umana e che affondano le loro radici nella pratica delle contrattazioni e dei procedimenti giudiziari.
Il giudizio: ecco il punto che sarà fulcro della problematica per la generazione immediatamente successiva a quella di Ranieri. Per Ranieri il dubbio non esiste: l’istrumento è come la nascita dell’individuo, il processo è come la vita tutta dell’uomo. Tutto è in divenire nella vita, e quindi è vano incatenare il documento alla roccia del Caucaso. Mutano le volontà che in un istante si congiungono nell’istrumento, e nell’istrumento stesso sono insite, attraverso le azioni competenti alle parti, quelle energie vitali che lo trasformeranno.
E’ così che Ranieri, abbandonando le note sponde già arate nel suo primo formulario, alza la vela e fa rotta per l’alto mare del processo, un mare in cui mai e poi mai avrebbe potuto pensare di ritrovarlo [p. 1028] l’editore del suo primo formulario43, un mare in cui invece lo ritrovò, seppure inopinatamente e dopo un quarto di secolo, chi appunto andava cercando qualcosa in quelle acque e che già s’era imbattuto in quella strana figura di Argonauta che fu Martino da Fano44, un navigatore che percorreva la stessa rotta di Ranieri, ma in senso inverso, dall’alto mare del processo alle spiagge del formulario notarile.
Comunque, per i principî stessi che la animavano, l’Ars Notariae fu opera a cui Ranieri attese per oltre un ventennio, modificandola sempre, mai portandola a compimento. E tale essa rimase, poiché chi sfoglia le pagine dell’edizione del 1917 può constatare agevolmente che si tratta di un’opera non finita, rimasta quale la lasciò l’autore nel momento in cui la vita gli venne a mancare.
Frattanto l’insegnamento ed i testi di Ranieri — per la teorica l’Ars Notariae ma per la parte formulare soprattutto il Liber formularius —, avevano aperto la via alla diffusione ed al rapido prevalere dell’istituto notarile, quale risultava figurato dalla nuova disciplina, sull’orpello dei riti45 e delle remote consuetudini di antiche corporazioni tabellionali già legate all’epoca tardo romana46, con questo preparando la strada a quella che sarà l’incontrastata affermazione della Summa totius artis notariae.
Limitando l’accenno al solo territorio italico, in proposito basterà [p. 1029] ricordare l’Ars Notarie di Bencivenne47, localizzabile nel tempo attorno al 1235, e la Summa dell’Aretino48, di poco posteriore (1240-1243). Queste opere accompagnano la diffusione della dottrina e del formulario bolognese lungo i due mari e lungo gli opposti versanti di Appennino, propagandosi fino a raggiungere Napoli e le sedi dell’impero. Qui Federico II, teso da tempo a combattere le inveterate prerogrative e l’altrettanto pomposo quanto ormai vuoto rituale dell’antica corporazione dei curiali, seppure in lotta contro i comuni dell’Italia centro settentrionale, massime contro Bologna e il suo Studio, non avrà dubbi e sarà prontissimo a spalancare le porte a persone e testi che porteranno il verbo della nuova disciplina nelle sue terre e nel suo Studio di Napoli, di fondazione recentissima (1224). In Bologna, frattanto, la generazione che vive il momento immetdiatamente successivo a quello di Ranieri agita esperienze e problemi diversi, in una situazione politica e culturale che va mutando.
Siamo nel quinto decennio del secolo XIII, e siamo ai tempi di Salatiele e di Rolandino. All’ottimismo del momento delle origini, all’entusiasmo che aveva accompagnato la promulgazione delle dieci leggi federiciane dell’incoronazione (1220, novembre, 22) ed il loro invio allo Studio bolognese perché venissero inserite nel sacro corpo delle leggi romane e perché quivi venissero lette e studiate49, subentra la durezza del rinnovato scontro fra Comuni e Impero, e con esso la [p. 1030] divisione interna fra le parti, quel dualismo che si concluderà presto nella lotta, nelle feroci rappresaglie, nella spietata persecuzione della parte soccombente.
Nella scuola di notariato, che progressivamente si porta alla ribalta della scena politica avviandosi a sostituire, con la propria società che va assumendo la rappresentanza dello Studio, le società del cambio e della mercanzia già prevalenti fino alla metà del secolo XIII, si leva la voce di Salatiele, di parte imperiale, o ghibellina, o lambertazza, per usare il termine locale corrispondente alle fazioni che si muovono nella città: nell’universo esistono due principî, il bene e il male, lo spirito e la materia. Il diritto, espresso nel verbo della dottrina civilistica, è spiritualità pura, e come tale è destinato a sconfiggere e governare le forze della materia e del male. Nel mondo in apparenza limitato del notariato, come del resto in ogni cosa, in realtà si specchia la problematica tutta della vita: esso non è che una parte el cielo del diritto che di là è caduta, e che là deve essere riportata.
Questo è il compito dell’ars notariae: correggere la aberrazioni della pratica e ricondurle alla purezza della teoria. Cade la concezione raineriana della fluidità dell’istrumento, che diventa la torre nella quale viene custodita la volontà delle parti, difesa dalla fides intemerata del notaio; cade l’espansione nell’ambito processuale, in quanto azioni ed eccezioni non sono più i canali, le vene che diffondono in modo uniforme il fluire della vita, ma sono catene che legano, nervi, vires quibus homines vintiuntur50; cade l’omogeneità del tessuto fra teorica e pratica, e con essa cade l’antica tripartizione di Ranieri, sostituita da una rinnovata cosmogonia quadripartita ad instar quattuor elementorum quibus humanum corpus conficitur51, che relega la pratica nell’ultimo libro e la costringe a specchiarsi nella teoria. E la teorica non è costruzione del maestro dell’arte, ma è ricostruzione da lui operata attraverso la raccolta di quei frammenti [p. 1031] del cielo del diritto che la bieca furia della materialità aveva disgregato, e teneva celati sotto una spessa coltre di ignoranza, nel vano tentativo di farli dimenticare.
E’ la concezione aristocratica del notariato, che si traduce, già per il lettore del secolo XIII ma soprattutto per noi, nella difficoltà di intendere i valori insiti in una dinamica creativa tesa a proiettarsi sul piano dell’espressione, la quale si considera buona o men buona a seconda che essa aderisce più o meno strettamente al verbo della legge; tale è la ragione dell’abito assunto deliberatamente dall’opera di Salatiele, un’opera che altrimenti intesa apparirebbe null’altro che un arido centone di passi del Corpus, laddove tale sistema di costruire è ricercato volutamente come l’unico possibile per non contaminare la pura fonte dello ius civile; tale è la logica delle invettive contro la pratica, che apparvero a lungo estemporanee52, le quali scoppiano al limite dell’espressione, quand’essa non sgorga con l’abituale facilità dalle note fonti della dottrina civilistica, e si contorce, e si ravvolge su se medesima, latrando infine disperatamente contro la radice stessa del male.
Uscita una prima volta nel 1242, indubbiamente apprezzata ma anche criticata aspramente per le molte preclusioni che essa imponeva alla pratica del tempo, massime nei confronti della materia processuale, essa venne rielaborata53 nel decennio fra il 1242 ed il [p. 1032] 1253-54 e ripresentata in una veste massiccia54, relativamente scarna ed essenziale nel testo, ma accompagnata da un poderoso [p. 1033] apparato critico che parve portare alle sue estreme conseguenze la consuetudine bolognese, già affermata con le opere di Ranieri, di corredare i testi di notariato non solo con singole glosse, ma con un intero apparato di maestro.
L’Ars Notarie di Salatiele aveva rappresentato il massimo sforzo di elaborazione di una completa teorica del notariato55. Partendo, con il secolo XI, dall’attività di tabellioni che usavano antichi formulari il più delle volte non intesi nel loro valore sostanziale, molto spesso ripetitivi di riti di un passato non più esistente sul piano del diritto positivo, attraverso le molte vicende che si sono esaminate, con Salatiele si era infine arrivati, sulla base del diritto romano puro, ad elaborare una teorica che in ultima analisi aveva come fine supremo il ridimensionamento e la riconduzione della pratica agli schemi ed all’ambito della teoria. Peraltro anche ora, quando ci si applica all’esame dei documenti compresi nell’ultima parte di quest’opera, presentati quasi come una appendice documentaria a corredo dei primi tre libri applicati alla teorica, riesce difficile liberarsi dalla vaga sensazione di muoversi in un mondo irreale, non corrispondente con precisione a quello cittadino della metà del secolo XIII e nemmeno corrispondente, in definitiva, a qualsiasi altro mondo esistito mai: residui di diritto longobardo, di diritto feudale, [p. 1034] prima attentamente considerati da Ranieri e ragione non ultima della fortunata diffusione dei suoi testi, massime del Liber formularius, nell’Italia centro meridionale, qui non esistono più; non esiste per nulla, come non esiste del resto nemmeno ai giorni nostri, quella commistione fra l’attività professionale del notaio quale noi ora conosciamo e l’attività processuale, concezione indubbiamente illuminata in un teorico del secolo XIII, ma certo non rispondente alla pratica dei tempi suoi.
La reazione della parte avversa, la parte guelfa, la parte geremea per usare anche in questo luogo termini cittadini, non poteva mancare. Immediatamente dopo la seconda e definitiva stesura dell’Ars Notarie di Salatiele, e precisamente attorno al 1255, esce la Collectio contractuum di Rolandino, una raccolta di documenti deliberatamente nuda di qualunque apparato, priva di qualsiasi disquisizione teorica, affidata unicamente all’architettura interna di ogni singolo documento ed alla logica implicita nella distribuzione di questi nel complesso dell’intero panorama documentario.
In apparenza era un ritorno al momento delle origini, in realtà era un quadro altrettanto lucido quanto aggiornato della situazione del momento, aderentissimo alla pratica del tempo, carico di cultura nell’apparente rifiuto di qualsivoglia posizione dottrinale.
Dalla edizione veneziana del 154656 riporto qui di seguito lo splendido esordio del proemio alla Collectio, che è l’esordio stesso della Summa totius artis notariae:
«Antiquis temporibus super contractuum et instrumentorum formas et ordines, fuerunt per quosdam prudentes viros, ignaros fortassis ex conscientiae puritate sagacitatum subtilium modernorum, quaedam compilationes et summae iuxta tunc viventium mores et consuetudines adinventae. Sed cum venerit quo iunior, eo perspicacior aetas nostra, novos et subtiliores mores, sicut in multis aliis, ita in contractuum ordine secum ferens, oportuit ut antiquis omissis [p. 1035] ritibus non tanquam quos reijciamus, vel iudicemus erraticos, aut iuri contrarios, sed ut quodam modo alienos et in paucis vel nullis congruentes subtilitatibus modernorum, novellam quemadmodum quasi in caeteris facimus, ita in contractuum dispositionibus et modis nostri formam temporis imitemur, et nostrae utamur aetatis moribus, et vitae observantia reformemur.»
Espressioni quali quelle riferite alla subtilitas dei moderni contrapposta alla conscientiae puritas degli antiqui, alla fatalità dell’avvento della aetas nostra quo iunior eo perspicacior mascherano, sotto il velo finissimo dell’ironia, l’intensità della carica polemica. Questa peraltro si manifestò e maturò nel ventennio di silenzio che Rolandino impose a se stesso e alla scuola, mentre portava avanti il suo lavoro e si alternava con Salatiele e Zaccaria57, l’ultimo continuatore della corrente di Ranieri da Perugia, nella presentazione dei giovani aspiranti che si sottoponevano alle prove dell’esame comunale di notariato58.
E’ in questo periodo che vengono sperimentate e si consolidano le basi della Collectio contractuum, trasformandosi in quelle che saranno le fondamenta stesse della Summa totius artis notariae. Lo stesso Rolandino, nel proemio all’Aurora, dà la misura di questo lungo e creativo periodo di silenzio:
«Verum est tamen quod iuvenis fui, et fere iam senui. Et in tota vita mea legendo, meditando, et exercendo continue huius artis exercitio previa Christi gratia profunda rimatus sum, et manus meae longis et continuis exercitiis contractaverunt eandem, et sic non tam ex auditu, sed ex visu et tactu solidum testimonium conprehendens, primo textum conscripsi, et deinde, post multorum annorum curricula, praesentem superaddidi apparatum»59.
[p. 1036] E’ infatti solo verso la fine del 127360, alla vigilia degli scontri della primavera del 1274 che portano alla definitiva cacciata dei Lambertazzi, alla persecuzione della parte avversa, all’esilio, alla scomparsa di Salatiele, l’antico antagonista così negli studi come nella politica, che Rolandino pubblica l’Aurora, prima parte del commento alla Collectio contractuum del 1255, peraltro portata avanti fino all’instrumentum locationis operarum ad opus scripturae faciendae, del quinto libro61.
Nel decennio che segue la comparsa dell’Aurora Rolandino avrà parte di primo piano nella vicenda politica, ed avrà in mano le sorti di uomini e cose della sua città; e quando, sul finire del secolo, ritornato ai suoi studi, tenterà di modificare ed aggiornare la sua antica raccolta del 125562, nessuno lo vorrà ascoltare: essa vivrà oramai di vita propria, base inattaccabile di quella poderosa struttura alluvionale che verrà portata avanti, nel tempo, da altri, e prima di tutti da Pietro da Anzola che con l’Aurora novissima aggiornerà e completerà in modo splendido l’Aurora di Rolandino, riconsiderando dalla sua età con un velo di tristezza e di nostalgia le molte cose dei tempi andati, e con esse il lungo, tormentato, glorioso cammino della scuola.